Il 7 luglio 1966, a Roma, nello studio di via Nemorense 100, il notaio Cinque ricevette un piccolo gruppo di persone che dettero vita, con la stipula dell’atto costitutivo, all’associazione Una Voce. Lo scopo (“il compito”, scrisse il notaio) ne era quello di “difendere la lingua e la musica tradizionali nella liturgia della Chiesa Romana… in piena conformità con le costituzioni liturgiche e conciliari”. Erano anni tormentati. Il Concilio vaticano secondo aveva promulgato la costituzione Sacrosanctum Concilium in cui al paragrafo 36/1 aveva disposto: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, venga conservato nei riti latini”. Al paragrafo 54, aveva ulteriormente sancito: “Si abbia cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario che loro spettano”. Aveva decretato infine (§ 116): “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle celebrazioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”. Ma, nonostante i chiari dettami della costituzione conciliare, i novatori, appellandosi, come fece il card. Lercaro, ad un preteso, diverso “spirito del Concilio”, avevano intrapreso una tenace e graduale opera di demolizione della liturgia millenaria della Chiesa. Per cominciare, si introdusse e generalizzò l’uso della Messa in lingua volgare, per ora escludendo il Canone, che continuava ad essere recitato in latino. Il canto gregoriano, poi, venne semplicemente ignorato, forse perché non si prestava ad essere accompagnato dal suono di quelle chitarre che si andavano diffondendo nelle chiese ed erano considerate un simbolo di giovanile rinnovamento spirituale. Questa opera di demolizione d’un patrimonio spirituale e culturale immenso e di valore ecumenico ed unificante all’interno della Chiesa aveva suscitato vivo scalpore. Il 5 febbraio di quello stesso 1966, un folto gruppo di intellettuali di tutto il mondo aveva indirizzato al Papa un appello allarmato. C’erano, tra l’altro, le firme di Jorge L. Borges, di Pablo Casals, di Elena Croce, di Giorgio De Chirico, di Augusto Del Noce, di Salvador de Madariaga, di Jacques Maritain, di François Mauriac, di Eugenio Montale, di Goffredo Petrassi, di Salvatore Quasimodo, di Philip Toynbee, di Evelyn Waugh. Il Papa, che era Paolo VI, si preoccupò di questo movimento e il 15 agosto, nella lettera Sacrificium Laudis , scrisse che la lingua latina, “lungi dall’essere tenuta in poco conto, è certamente degna di essere vivamente difesa”. Nei fatti avveniva esattamente il contrario. Il problema del momento, dunque, era soltanto quello della lingua latina nei riti sacri e del canto gregoriano. Di questo si preoccupavano perciò le persone convenute dal notaio Cinque. Fra di loro, don Filippo dei duchi Caffarelli, delegato gran priorale a Roma dell’Ordine di Malta, il prof. Guerino Pacitti, presidente dell’Istituto di Studi Romani, e Carlo Belli, notissimo critico d’arte e letterario, giornalista e scrittore. Pur non potendo intervenire aderì subito Eugenio Montale cui seguirono poi, tra gli altri, Gaspare Barbiellini Amidei e Massimo Pallottino. Questa presenza nel movimento laico di figure culturalmente illustri fu presa a pretesto dai novatori per accusare Una Voce (lo fecero anche noti monsignori in dichiarazioni alla stampa) di essere solo espressione d’un piccolo gruppo di vecchi intellettuali estetizzanti, accusa poi ampiamente smentita dai fatti. La fondazione di Una Voce in Italia seguiva quella di un’analoga associazione costituita a Parigi tra la fine del ‘64 e l’inizio del ‘65, e movimenti analoghi stavano sorgendo in diversi stati, sicché l’atto costitutivo di quella che finirà per essere detta Una Voce Italia prevedeva esplicitamente la possibilità di aderire ad “organismi internazionali perseguenti gli stessi scopi”. Così, il 7 gennaio 1967, il presidente di Una Voce Italia, Filippo Caffarelli, si riunì a Parigi con i rappresentanti di altri tredici paesi (Francia, Germania, Inghilterra, Scozia, Svizzera, Austria, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia, Spagna, Uruguay e Nuova Zelanda) per costituire la Federazione Internazionale, presidente il dott. Eric M. de Saventhem e vicepresidente il duca Caffarelli. Ma i novatori erano solo agli inizi della loro opera di demolizione, di cui l’attacco al latino era stata soltanto la prima mossa, agevolata dalla pigrizia di parte non indifferente del clero, che si vedeva esentato così dall’insegnare i fedeli le parti dell’Ordinarium missae in quella lingua, in obbedienza al tanto richiamato Concilio. All’inizio del ‘68 fu tradotto in volgare (malamente, almeno nel caso dell’italiano) il Canone della Messa. Ma intanto si stava elaborando, senza che il Concilio lo avesse disposto o quanto meno autorizzato, il testo, completamente nuovo, d’una Messa pensata e concordata a tavolino, che già nell’ottobre del 1967 era stata presentata al Sinodo dei Vescovi con il nome di Missa Normativa, ricevendone una pesante bocciatura. Ma un anno e mezzo più tardi, la costituzione apostolica 3 aprile 1969, introdusse il Novus Ordo Missae che non differiva molto dalla Missa Normativa e che è quello che conosciamo e che ha a sua volta subito negli anni continue modifiche ulteriori. A questo punto, la questione non era più soltanto difendere lingua e canto, ma più ampiamente quella di difendere l’immenso patrimonio di fede, di unità, di tradizione e di cultura che la Messa cosiddetta tridentina o di San Pio V rappresentava per l’ecumene cattolico; un patrimonio che i novatori ad oltranza spingevano a distruggere sostenendo che il nuovo rito aveva implicitamente soppresso il vecchio: questione poi affrontata empiricamente con lettera Quattuor abhinc annos e poi con il motu proprio Ecclesia Dei adflicta, dal compianto papa Giovanni Paolo II. La Federazione Internazionale e le associazioni nazionali, sempre crescenti di numero e di importanza, dovettero quindi spostare o meglio ampliare la portata della loro battaglia, impegnandosi nella salvaguardia di quella Messa tradizionale che, in molte parti, risale ai primi secoli del cristianesimo. Il resto – come dicevano i vecchi romanzieri – è storia. Anzi è più che mai attualità viva, con la vecchia generazione dei fondatori di Una Voce da tempo scomparsa e con l’impressionante rinnovamento generazionale che vede in prima fila tanti giovani allevati in piena vigenza del nuovo rito e per i quali l’attaccamento alla Messa tradizionale non è nostalgia, ma una meditata scelta.
Umberto Mariotti Bianchi
da: «Una Voce Notiziario», 23-24 ns (2006), pp. 2-3, unavoceitalia.org