Il patrimonio organario antico italiano è ricchissimo, non solo per la quantità, ma anche per la qualità e varietà. Allo stato attuale delle conoscenze, è difficile fornire dati precisi sulla consistenza, data anche l’estrema disuguaglianza nella distribuzione territoriale: se ad esempio una provincia come quella di Belluno presenta soltanto un’ottantina di strumenti di interesse storico-artistico, la sola città di Bologna ne possiede oltre un centinaio.
D’altro canto, se alcuni tipi d’organo (quello veneziano settecentesco, quello lombardo ottocentesco) presentano caratteri abbastanza diffusi e comuni (ciascuno nel proprio genere, ben inteso), profonde diversità qualificano e segnano gli strumenti attraverso i tempi e i luoghi: un organo rinascimentale toscano non è la stessa cosa di un coevo strumento lombardo.
E gli esempi potrebbero continuare.
La maggior parte di tale patrimonio versa in condizioni precarie di sopravvivenza, vuoi per prolungati periodi di abbandono (segnati dai danni prodotti dal tarlo, dai topi, talvolta dallo stillicidio dell’acqua piovana), vuoi per azioni vandaliche di asportazione e danneggiamento del materiale (tipico il caso di canne divelte e calpestate), vuoi infine per interventi inconsulti di manomissione: perlopiù volti ad adattare gli strumenti alle limitate cognizioni musicali e al cattivo gusto di organisti dilettanti, sprovveduti o velleitari; s’intende alludere alla sostituzione di tastiere e pedaliere “più comode” rispetto alla presunta scomodità di quelle originali, così come all’eliminazione di autentiche sonorità organistiche (Flauto in XII^, Cornetto, registri ad ancia, file acute di Ripieno) perché “stridule” e alla loro sostituzione con materiale scadente (zinco) confezionato in maniera industriale e finalizzato ad effetti sdolcinati e d’infimo gusto, estranei all’arte e alla cultura musicale, meno che mai convenienti ai livelli di qualità e di dignità del tempio e del rito.
Eppure queste operazioni per lunghi (troppo lunghi!) decenni sono state qualificate come “riforma liturgica” degli organi, laddove è da stigmatizzare un atteggiamento tuttora perdurante: quello di assumere come metro di valutazione degli organi (e non solo quelli) una categoria storicamente e culturalmente inconsistente quale quella di “liturgico” (ciò che era liturgicamente tassativo per Pio XII non lo è stato più con Paolo VI; né la situazione ha finora cessato di essere fluida; ma qui basti rilevare la relatività del termine).
Con il decadere dell’esercizio della musica in chiesa, da livelli di qualità non di rado prestigiosa (di necessità, storicamente concreta e individuata: di volta in volta il gregoriano nel periodo romanico, la primitiva polifonia nel gotico, la grande arte contrappuntistico-imitativa nel Rinascimento e nel
Barocco, lo stile “concertato” nel Barocco fino a ben addentro l’Ottocento) a livelli non professionali, si accompagnò un singolare fenomeno: la codificazione ufficiale della mediocrità.
Alla creatività dell’arte si pretese di sostituire prescrizioni e norme atte ad orientare l’esercizio di “routine” mantenuto al più basso profilo; così l’organo “diventava” liturgico se avesse avuto tastiere di 58 tasti, pedaliera di almeno 27 tasti, registri non spezzati “bassi” e “soprani, ecc. Atteggiamento che non si sa se definire più assurdo o ingenuo, ma al quale si deve la manomissione e la distruzione di centinaia di insigni strumenti (tra i tanti casi: i quattro organi della basilica del Santo a Padova, le coppie di organi di San Marco a Venezia, del Santuario di Loreto, della Cattedrale di Volterra, di S. Stefano dei Cavalieri a Pisa, ecc.).
Ma non meno assurde e ridicole sono le pretese “liturgiche” attuali di volere l’organo o l’organista in mezzo all’assemblea, disattendendo pateticamente la natura del canto assembleare, le leggi dell’acustica e le esigenze di un serio esercizio dell’arte dei suoni. In ossequio a tale confuso velleitarismo si vorrebbero comandare gli organi a distanza mediante trasmissione elettrica, di fatto contraddicendo all’esigenza primaria della fonte sonora prossima a chi canta e suona e indulgendo ad un tipo squalificato di organo, ripudiato universalmente dalla cultura organistica e musicale.
Senza contare che la riforma protestante e calvinista sono riuscite a far cantare le assemblee dei fedeli senza rimuovere o manomettere gli organi; più semplicemente e correttamente si è inculcata l’educazione musicale di base generalizzata, si è allestito un repertorio musicale qualificato ed appropriato di canti, e si è affidato l’organo ad un professionista.
Tutte cose che non si ottengono dall’oggi al domani, come “italianamente” si è preteso di fare in maniera confusa e pasticciona.
E come un tempo le commissioni diocesane di musica sacra inculcavano e benedicevano le riforme liturgiche degli organi – di fatto perseguendo un assurdo appiattimento e livellamento in netto contrasto con una tradizione senza pari per varietà e fantasia creativa, senza contare l’avallo perennemente concesso agli operatori più squalificati del settore (cui rifiutiamo, per ragioni oggettive, la qualifica di “organari”) – così oggi da quegli stessi ambienti diocesani si ribadiscono posizioni in netto contrasto con gli indirizzi più aggiornati in campo organistico, organario, organologico e di tutela del patrimonio strumentale antico.
È stata quindi condizione storica strettamente necessitante per quanti nel nostro Paese hanno a cuore senza riserve la tutela e l’integrità del patrimonio storico organario, richiamare l’attenzione degli uffici statali preposti a quelli che oggi complessivamente si usa chiamare “beni culturali” perché in questi ultimi fossero a pieno titolo compresi gli organi e gli strumenti musicali.
La situazione è lungi dall’aver trovato soddisfacente soluzione, anche perché nel nostro Paese, per una singolare distorsione di vecchia data, la tutela – e di conseguenza la preparazione dei funzionari ad essa preposti – è sempre stata ed è tuttora finalizzata ai fatti “visivi” (senza contare i condizionamenti delle valutazioni “estetiche”), sottovalutando gli aspetti essenzialmente “storici”, materiali e documentari dei manufatti e delle testimonianze in genere del passato.
Più volte è infatti accaduto che la “tutela” degli organi antichi giungesse a salvaguardare il solo prospetto, come se le canne interne e tutto il resto (tastiera, complesso dei comandi e dei meccanismi, somieri ecc.) non fossero anch’essi “oggetto” di rilevanza storica ed artistica ad un tempo.
Quando addirittura non è accaduto che, per mal inteso purismo architettonico, organo e cantoria sono stati spazzati via come elemento ingombrante e “deturpante”, così nelle cattedrali di Cremona, Concordia Sagittaria, Gerace, Perugia, Pienza, Pistoia, Prato, Troia, Volterra e nelle chiese di notevole rilevanza come Assisi (S. Francesco), Bari (S. Nicola), Cortona (Madonna del Calcinaio), Milano (S. Maria delle Grazie) oppure sono stati trasferiti (come a Mortara: S. Lorenzo, alla Badia Fiesolana, a Modena: Cattedrale) o arbitrariamente ridimensionati (come a Castell’Arquato: Collegiata, e nelle cattedrali di Assisi, Bologna, Lodi); l’elenco è ovviamente soltanto esemplificativo.
Un allargamento del campo visuale è quindi urgente e necessario, non solo in ottemperanza al dettato costituzionale, ma anche per adeguare l’opera della pubblica amministrazione agli orientamenti culturalmente più avvertiti e prevalenti da tempo nei paesi civili.
Ma l’intervento pubblico in materia organaria si giustifica anche per altri motivi. Quando si parla di “Chiesa”, normalmente si identifica “sic et simpliciter” con la gerarchia. Occorrerebbe ricordare, più correttamente, che la Chiesa è la comunità dei battezzati, quindi dei fedeli e del clero. A quest’ultimo spettano incontestabilmente i compiti magisteriale e sacramentale per la salvezza delle anime. Il “temporale” è invece incombenza dei fedeli costituiti, come cittadini, in legittime pubbliche aggregazioni: in una parola lo Stato, nella fattispecie la Repubblica. della quale sono pure cittadini – con parità di doveri oltre che di diritti – i membri del clero e della gerarchia.
Sembra invece che a più di cent’anni di distanza questi ultimi non abbiano ancora accettato di buon animo la fine dello Stato pontificio e si considerino – e di fatto molto spesso si comportano – come se lo Stato non esistesse o addirittura come se l’intervento statale nel merito specifico della tutela storico-artistica (e quindi anche organaria) fosse un’illecita intrusione, una prevaricazione laicista nei fatti di culto e di religione.
Di qui la tendenza degli ecclesiastici in genere a sottrarre al “civile” quanto più è possibile e a gestirlo quale patrimonio esclusivo: in particolare, appunto, i beni culturali cosiddetti ecclesiastici. A cominciare dagli archivi, che sono innumerevoli, spesso imponenti, ma raramente gestiti correttamente e accessibili o fruibili in condizioni soddisfacenti per lo studioso.
Se è vero che il clero (anche per l’assottigliamento dei ranghi in conseguenza sia della flessione delle vocazioni, sia delle innumerevoli riduzioni allo stato laicale determinate dagli smarrimenti pre- e post-conciliari) è letteralmente travolto dalle incombenze pastorali, non si vede perché tali patrimoni archivistici non vengano depositati presso quelle strutture pubbliche create – nell’interesse di tutti – per la conservazione e la consultazione del materiale documentario che vi è conservato.
Ulteriore, elementare, ma – a quanto sembra – non altrettanto ovvia osservazione è che i beni culturali cosiddetti ecclesiastici sono proprietà non del clero, ma della Chiesa, quindi anche dei fedeli. Non esistendo nell’ambito di quest’ultima forme e strutture amministrative o rappresentative dei fedeli stessi per una gestione culturalmente avvertita e comunitariamente trasparente di tale patrimonio (come lo erano le “opere” o le “fabbricerie”, esistite con validità civile, giuridica dal Medioevo fino al concordato del 1929), non si vede come tale compito non possa e non debba essere esercitato da quegli istituti pubblici, statali, esistenti in quanto prefigurati e regolati da leggi che i cittadini medesimi si sono date. È anzi sorprendente come il clero non riesca ancora oggi a concepire il pubblico ufficio come una struttura anche al suo servizio.
Certo, è storicamente più che giustificata la diffidenza, l’estraneità o l’insoddisfazione del cittadino nei confronti di questo Stato italiano e delle sue strutture per lo più arcaiche, fatiscenti, inefficienti, lente, paralizzanti, onerose e insufficienti. Ma non è men vero che questo deplorevole stato di cose è anche storicamente frutto di plurisecolari prevaricazioni clericalesche e, in tempi a noi più prossimi, del valoroso contributo di “cattolici”, politicamente o meno impegnati.
Sicché, in luogo di vedere stimolata la concorde volontà dei cittadini – chierici e laici, credenti e miscredenti – per far sì che lo Stato cessi di essere soltanto elargitore di finanziamenti, sussidi, esenzioni, favori e simili, e diventi finalmente quello che deve essere: un fornitore di servizi efficienti per tutti e ad un costo ragionevole, si assiste al raddoppiarsi o triplicarsi di compiti e funzioni: da qui la serie degli archivi, biblioteche e beni culturali ecclesiastici, il tutto gestito dal clero e dalla gerarchia come cosa propria ed esclusiva senza ingerenze “esterne”, semmai facendo leva sul volontariato gratuito di laici archivisti, bibliotecari, schedatori, catalogatori.
Altra materia di considerazioni è quella in ordine alla storia della cultura. È infatti fuori di dubbio che al tutela rigorosa e il restauro storico-filologico sono una caratteristica dei nostri tempi nel rapporto con i manufatti storico-artistici del passato; ed è altrettanto certo che il concetto e la prassi del restauro mutano nel tempo: si affinano i procedimenti, si arricchiscono le conoscenze e le esperienze, si moltiplicano le occasioni di verifica e di confronto, si allarga il campo dell’attenzione.
Fino ad una ventina d’anni addietro, ad esempio, non si prestava attenzione al recupero del “temperamento” antico nell’accordatura degli organi; ed è di questi ultimissimi tempi l’adozione della camera a gas anche in campo organario quale mezzo di disinfestazione dal tarlo delle parti lignee.
Tutte materie, come ognun vede, oggetto e fonte di studio, di ricerche, di dibattito, di pubblicazioni; tutte cose cui certo il clero non è istituzionalmente tenuto né attrezzato.
Non solo, ma si stenta a credere come – in materia di organi – taluni vescovi, vicari generali e parroci ritengano di regola preferibile avvalersi del poco illuminato consiglio di un prete musicista auto-didatta e dilettante piuttosto che rivolgersi a un professionista qualificato da oggettive referenze (quali possono essere l’attività didattica, concertistica, scientifica, pubblicistica ecc.).
Il fatto che questi sia magari anche un cattolico praticante è del tutto ininfluente agli occhi dei sospettosi ed esclusivisti curiali ed ecclesiastici, giacché l’autonomia di giudizio che il competente mutua dalla propria preparazione e professionalità è in perenne rotta di collisione con le ristrette vedute di chi è investito di una carica di governo (laica o clericale non fa differenza) senza un adeguato corredo personale di cultura.
Ma le limitate risorse culturali – diciamo così – di alcuni ecclesiastici, hanno come conseguenza non soltanto l’effettuazione di restauri poco ortodossi o – il che fa lo stesso – l’installazione di organi “nuovi” di costruzione, ma sorpassati di concezione, ed inoltre l’impossibilità della loro utilizzazione per scopi diversi da quelli strettamente “liturgici”. Di fatto, in alcune diocesi italiane è impossibile o comunque molto difficile poter svolgere concerti d’organo.
Il che è paradossale. Se durante la celebrazione dei riti non è più possibile, in concreto, suonare quella letteratura organistica che appunto per essi è stata concepita (si pensi ad esempio ad una messa organistica alternata, versetto per versetto, con il canto gregoriano) e se d’altra parte gli organi antichi ne sono il tramite sonoro indispensabile per la corretta esecuzione (secondo i dettami di una cultura musicale, musicologica ed organistica che su questi temi si va sviluppando e affinando da quasi un secolo ma alla quale il clero cattolico resta sordo e indifferente), non si capisce in quale altro modo esecutori ed ascoltatori possano fruire e degli organi antichi e della loro musica. Visto che appena fuori d’Italia – in Austria, in Svizzera, in Francia, in Germania – tale tipo di divieto è del tutto sconosciuto. Senza contare che presso cattedrali e abbazie transalpine le celebrazioni di messe solenni e pontificali in latino, con l’apporto tradizionale delle cinque parti dell’ordinarium in polifonia o in musica concertata, da Dufay a Brucker, è prassi consuetudinaria – e poiché la gerarchia ecclesiastica di quelle contrade non risulta essere eretica o passibile di censure del genere, ne consegue necessariamente che ad essere in difetto sono alcune diocesi italiane (quella di Rimini, ad esempio).
In difetto essenzialmente di sensibilità culturale: giacché se si tollerano le sconcezze musicali che usualmente infestano le celebrazioni liturgiche, non si comprende francamente come il luogo sacro possa ritenersi “profanato” dallo svolgimento di qualche concerto di musica organistica.
Ma c’è qualcosa di più: l’evento musicale è visto con ostilità da alcuni ecclesiastici perché giudicato fatto meramente edonistico; il che equivale a dire che dopo tutte le esperienze acquisite dalla psicologia e dalla musico-terapia non si è ancora arrivati a comprendere che la musica è un linguaggio, un veicolo di messaggi, diverso ed “altro” dalla parola, dal discorso e dal ragionamento logico-verbale.
Né si venga ad obiettare che la musica è un fatto estetico, poiché tutto nell’uomo è “aisthesis”, giacché “nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu” come asseriva l’antica, grande “scuola” filosofica. E quante volte il nostro “sensus” uditivo è offeso e avvilito da prediche e omelie, sciatte nella forma, scorrette nella lingua e modeste nel contenuto.
Coloro che non conoscono la musica non possono rendersi conto della complessità e profondità del linguaggio musicale; chi non abbia l’orecchio musicale – cioè in grado di distinguere e riconoscere i suoni – o non sia capace di seguire l’esecuzione di una composizione “leggendo” la relativa partitura non può evidentemente sperimentare quanto un’audizione musicale vada al di là della semplice “titillatio aurium”.
L’ascolto di una pagina musicale da parte di chi è digiuno di cognizioni tecniche è paragonabile alla lettura di una poesia o comunque di un brano letterario da parte di chi non conosca bene la lingua nella quale sono scritti.
Orbene, molta gente che si trova in queste condizioni di “ignoranza” musicale pretende pure – come ad esempio fanno da una trentina d’anni i cosiddetti “liturgisti” – di dettare legge in materia di musica e di organi. Non si può fare a meno di ricordare il caso ben noto degli allevatori del Wisconsin (U.S.A.) che – pur non essendo musicologi – hanno saputo apprezzare l’efficacia della musica “classica” sulle loro mucche per ricavarne una più abbondante produzione di latte!
Nonostante gli scomodi e persino sgradevoli condizionamenti sin qui elencati, è comunque indubbio come in poco più di trent’anni si sia fatto parecchio nel nostro Paese nel senso di una qualificazione culturale del mondo organistico e organario, premessa indispensabile per un’efficace e generalizzata opera di tutela.
Tuttavia, molto resta ancora da fare. Di tanti restauri che vengono effettuati, soltanto pochi raggiungono un buon livello di rigore metodologico e di qualità esecutiva. Numerosi organisti, poi, agognano ad avere restaurato l’organo della chiesa più vicina per divenirne titolari e potervi organizzare cicli di concerti per i propri allievi o “concerti-scambio” con colleghi nazionali ed esteri.
Ma soprattutto abbondano i dilettanti e gli autodidatti che si improvvisano “esperti” (sovente pure investiti della qualifica ufficiale di “ispettori onorari”): quindi vediamo la “tutela” esercitata da funzionari di banca, direttori didattici, medici chirurghi, insegnanti scolastici, architetti e simili.
Quando poi i dilettanti e gli “entusiasti” non si autopromuovono organari, magari con alle spalle soltanto una preparazione nelle scienze e senza la minima padronanza tecnica musicale (ricorrendo, eventualmente, per intonare e accordare le canne, a qualche operaio in pensione già attivo presso una grossa fabbrica d’organi).
Questo stato di cose esige che si faccia chiarezza.
Osiamo sperare che un contributo in questo senso venga dalle iniziative assunte dagli Uffici Centrali del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali: la costituzione di una commissione consultiva nazionale sui problemi della tutela organaria, l’emanazione di norme sull’effettuazione dei restauri, la definizione di un più articolato modello di scheda descrittiva di organo antico, l’avviamento dei corsi di formazione per i funzionari nel complesso, e pressoché sconosciuto, mondo della storia della tecnica e del restauro degli organi.
Didascalia generale:
Le fotografie che seguono sono state scattate da O. Mischiati il 2 giugno 1973. Qualche settimana più tardi lo strumento venne smontato da persone volenterose e collocato in una cappella laterale della chiesa; poco tempo dopo, cassa e cantoria furono travolte dal crollo della copertura soprastante, danneggiata da annose infiltrazioni d’acqua piovana. Infine, anche il ricordato materiale accantonato è sparito nel corso dei restauri alla chiesa effettuati dall’impresa Bonifica di Roma negli anni 1989-1992.
Lo strumento era una rara testimonianza dell’attività di un organaro particolarmente influente sugli sviluppi dell’organo italiano in età barocca; di lui sopravvivono soltanto gli organi di Collescipoli (Parrocchiale) e Pistoia (Spirito Santo), nonché il prospetto di quello di S. Maria in Carignano a Genova.
fig. 1 – Orvieto, chiesa dei Santi Apostoli: organo costruito dal gesuita fiammingo Guglielmo Hermans (circa 1660-70) – Veduta complessiva del prospetto, articolato in maniera tipicamente fiamminga.
fig. 2 – Idem: particolare del prospetto vistosamente segnato dallo stillicidio d’acqua piovana.
fig. 3 – Idem: particolare del complesso dei comandi (tastiera, pedaliera, registri) in completo stato di devastazione e di abbandono.
fig. 4 – Idem: particolare dell’interno, con i fori vuoti del crivello testimoni delle canne asportate.
Cfr. O. Mischiati, L’organo antico nella problematica della tutela dei beni culturali in Italia, in «I beni culturali. Tutela e valorizzazione», II, 1994, pp. 3-10 (revisione di Intervento, in I beni culturali ecclesiastici tra culto e tutela. Atti del Convegno di studi, Varese 24 gennaio 1987, Gavirate, Nicolini, 1990, pp. 58-61), riprodotto in www.unavoce-ve.it