Klaus Gamber, La messa è un sacrificio: da quando?

Un problema centrale nell’ambito del rinnovamento liturgico è la questione della natura della messa1 in quanto solo in base al riconoscimento della sua natura è possibile stabilire una forma rituale che vi corrisponda. Se la messa è innanzitutto un banchetto, il rito deve essere differente da quello che sarebbe se si trattasse della celebrazione di un sacrificio (con annesso banchetto). Così, per esempio, nel primo caso l’altare è solamente un tavolo per la cena, nell’altro è una mensa sacrificale, e deve avere una forma corrispondente. La stessa posizione che il sacerdote deve assumere all’altare, come si è detto, è condizionata alla risposta che si dà a questa domanda.

Se e fino a che punto la messa sia un sacrificio è problema che al giorno d’oggi agita più che mai gli animi. Al proposito, come già i riformatori, ci si richiama in primo luogo alle affermazioni contenute nel Nuovo Testamento. Questo sembra non conoscere affatto un sacrificio rituale. Così quando Paolo dice nella lettera ai Romani (12,1): “Offrite il vostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. Oppure quando la lettera agli Ebrei proclama l’unicità e l’esclusività del sacrificio di Gesù: “Egli al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, una volta per sempre si è assiso alla destra di Dio… Poiché con un’unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati… Ora dove c’è il perdono (dei peccati) non c’è più bisogno di offerta per il peccato” (10,12.18).

La lettera agli Ebrei però, a un più attento esame, distingue diversi sacrifici: in primo luogo il “sacrificio per il peccato”, di cui si è testé visto (10,18). Esso fu offerto sulla croce da Gesù al Padre come “sacrificio senza macchia” (9, 14), ed è unico. Inoltre la lettera parla ampiamente di “ministero del santuario e della vera tenda” (8,2), che Cristo, innalzato dopo la sua ascensione, compie nel cielo quale Liturgo (4,15-5,10; 8,1-9, 28).

Nella stessa lettera agli Ebrei, verso la conclusione, viene menzionato un altro sacrificio, cui appartiene un altare. “Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare coloro che sono al servizio del Tabernacolo… Per mezzo di Lui (Cristo) dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome (cfr. Sal 50,14). Non scordatevi della beneficenza e della koinonia, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (13,10.15-16).

Quando viene qui menzionato un “altare” terreno, del quale solo i fedeli hanno il “diritto di mangiare” (13,10), con esso, a quanto pare, non si intende altro che la “mensa del Signore”, di cui parla Paolo (1 Cor 10,21), contrapponendola ai banchetti sacrificali pagani. Qui l’Apostolo ha evidentemente davanti agli occhi Ml 1,2, ove l’altare dei sacrifici di Gerusalemme viene chiamato del pari “tavola del Signore”. Il partecipare all’ “altare”, ovvero alla “mensa del Signore”, presuppone dunque un sacrificio.

Il sacrificio della Chiesa, secondo la lettera agli Ebrei, consiste innanzi tutto in un sacrificio di lode (13,10). Analogamente Filone (De spec. leg. I 297) chiama sacrificio l’azione di grazie. Anche per i manoscritti di Qumrân “il sacrificio delle labbra, secondo la disposizione, sarà come un sacrificio di soave odore di giustizia” (Regola della comunità 1 QS 9,4 s.). Menzionano il sacrificium laudis le antiche preghiere della messa romana, tra cui il Canone. E proprio per indicare la messa tale espressione compare assai spesso nei Padri occidentali, e prima di tutto in Paolino di Nola (morto nel 431).2

Accanto all’unico sacrificio di Cristo e al suo ministero ininterrotto di Sommo Sacerdote nel cielo, come pure accanto al sacrificio di lode reso dalla comunità sulla terra, la lettera agli Ebrei parla anche della “beneficenza e della koinonia” come di sacrifici di cui Iddio si compiace (13,16). Il passo non risulta del tutto chiaro. Koinonia (=communio) sembra significare la celebrazione del “pasto del Signore” (1 Cor 11,20), e con beneficenza sembra si intendano i doni per i membri della comunità bisognosi, doni che venivano portati con sé a questa eucaristia-agape. Essi sono indicati da Paolo come “servizio della liturgia” (2 Cor 9,12). L’espressione koinonia si trova anche negli Atti degli apostoli, e precisamente nel passo ove si parla della “frazione del pane” nelle comunità delle origini, la quale aveva luogo nelle case (2,42).

Dalle idee della lettera agli Ebrei, “il cui ruolo nello sviluppo della fede della cena propria delle origini cristiane – rileva giustamente J. Betz3 – per lungo tempo non è stato apprezzato dai ricercatori come sarebbe stato conveniente”, sono influenzati Clemente Romano (intorno al 96) e l’autore dell’epistola di Barnaba (prima del 140). Nella sua lettera alla comunità di Corinto, Clemente insegna che esiste un ordine disposto da Dio, nel rispetto del quale i sacrifici (prosphorai) e il servizio sacrificale (leiturgia) debbono essere compiuti (40,2.4). Sarebbe inoltre compito del vescovo quello di “offrire i doni” (44,4). Qui con “doni”, come appare evidente, si intendono, al pari che in seguito in Ireneo, le offerte eucaristiche del pane e del vino.

Clemente parla inoltre di Gesù come del “Sommo Sacerdote delle nostre offerte sacrificali” (36,1). Da ciò è evidente come egli non scorga alcuna contraddizione tra l’offerta del vescovo sulla terra e il sommo sacerdozio di Gesù in cielo, del quale come si è detto tratta ampiamente la lettera agli Ebrei.

La Didaché, probabilmente il più antico scritto cristiano non canonico (intorno al 100), qualifica espressamente la celebrazione domenicale della frazione del pane come sacrificio (thysia), richiamandosi al profeta Malachia (1,11). I fedeli dovevano essere riconciliati tra di loro affinché il sacrificio “fosse puro” (14,1-3). Dietro a tutto ciò vi sono le parole di Gesù in Mt 5,23 s., pur mancando un espresso riferimento a esse. Con “sacrificio” la Didaché intende prima di tutto materialmente l’offerta del pane e del vino. Lo stesso Giustino (intorno al 150), del pari con riferimento a Mt 1,10-12, qualifica il pane e il calice dell’eucaristia come le offerte sacrificali (thysiai) dei cristiani (Dial. 41,3).4 L’identica cosa fa con assoluta chiarezza Ireneo di Lione (intorno al 200), il quale in Adv. haer. IV 17,5-18,6 sviluppa una compiuta dottrina della messa, che dovrebbe corrispondere con l’opinione comune diffusa nella Chiesa del II secolo.

Qui egli afferma che già nell’Ultima Cena Gesù ha fatto del pane e del vino l’offerta sacrificale del Nuovo Testamento. Queste offerte in tal modo sarebbero divenute il sacrificio della Chiesa, il “suo sacrificio” che essa offre a Dio per mezzo di Cristo. Esse sarebbero l’ “oblazione pura” predetta da Malachia, che viene resa senza interruzione sugli altari. Il suo compimento richiede la previa riconciliazione con il fratello: si tratta dunque delle stesse idee che abbiamo trovato nella Didaché.

La dottrina di Ireneo sul sacrificio della messa collima del resto con le più antiche testimonianze liturgiche, e in primo luogo con l’antichissimo Canone romano, che all’inizio recita: uti accepta habeas et benedicas haec dona… quae tibi offerimus. Sacrificare significa qui semplicemente, al pari che in Ireneo, portare qualcosa davanti a Dio per rendergli grazie deponendola sull’altare, il che corrisponde al significato originario del termine offerre.

Nella preghiera dopo la consacrazione si parla del fatto che noi offriamo a Dio ciò che è suo (offerimus… de tuis donis ac datis):5 inoltre si prega affinché il nostro sacrificio venga accolto sull’altare del cielo (in sublime altare tuum in cospectu divinae maiestatis tuae). Anche Ireneo spiega che noi offriamo a Dio ciò che già è suo, e afferma che il vero altare è quello del cielo, al quale sono diretti pure le nostre preghiere e i nostri sacrifici. Qui con tutta evidenza trova conferma la lettera agli Ebrei, che mette in rilievo l’ufficio di Sommo Sacerdote di Cristo nel cielo, ma soprattutto le idee dell’Apocalisse.

L’idea che in questo sacrificio, in base al comando di Gesù (1 Cor 11,14), venga fatta la memoria del Signore, in primo luogo della sua passione e risurrezione (cfr. il Canone: memores offerimus) manca in Ireneo. Si trova però espressamente in Cipriano, il quale intorno al 250 scrive in ep. 63,17: “In ogni sacrificio noi facciamo memoria della sua passione”.

In Cipriano oblatio e sacrificium (con l’aggiunta dominicum) divengono la denominazione prevalente della celebrazione eucaristica.6 Secondo il suo punto di vista anche Cristo nell’Ultima Cena ha offerto un sacrificio (Christus obtulit sacrificium), “lo stesso che aveva offerto Melchisedech, cioè il pane e il vino, il suo corpo e il suo sangue” (Ep. 63,4). Cipriano esprime in tal modo il medesimo pensiero di Ireneo, quando questi affermava che Gesù ha fatto del calice “il sacrificio del Nuovo Testamento” (IV 17,5). Entrambi i Padri si riferiscono alla formula sul calice, ove si parla di “sangue della nuova Alleanza versato per molti in remissione dei peccati” (Mt 26,28).7 La novità in Cipriano è il riferimento al sacrificio di Melchisedech, entrato anche nel Canone romano.

Un pensiero parimenti nuovo è quello che emerge ancora da Cipriano ep. 63,17, il quale, dopo aver osservato che “in ogni sacrificio facciamo memoria della sua passione”, aggiunge: “infatti la passione del Signore è il sacrificio che noi offriamo”. In tal senso pure S Giovanni Crisostomo (morto nel 407): “Il nostro Sommo Sacerdote ha offerto il sacrificio che ci purifica (cfr Eb 10,18), lo stesso sacrificio che ora noi offriamo” (In Hebr. hom. 17,3).

Il passaggio alla concezione medievale del sacrificio della messa8 lo troviamo in S. Gregorio Magno (morto nel 604), il quale afferma in Dial. IV, 57-58: “Questo sacrificio infatti salva l’anima dalla perdizione eterna, in virtù del mistero che rinnova per la nostra salvezza la morte dell’Unigenito. Anche se Egli risorto dai morti più non muore, e la morte non ha più alcun potere su di Lui (Rm 6, 9), vivendo in Sé stesso di vita incorruttibile e immortale, tuttavia si immola ancora per noi in questo mistero del suo santo sacrificio. In esso si riceve il suo corpo, la sua carne viene distribuita per la salvezza del popolo, il suo sangue viene versato…

Da ciò dunque ci si rivela quanta efficacia abbia per noi questo sacrificio, che rinnova continuamente la passione dell’Unigenito per liberarci dal peccato. Chi infatti dei fedeli potrebbe dubitare che durante l’immolazione, alla voce del sacerdote, si aprono i cieli, mentre i cori degli angeli assistono al mistero di Gesù Cristo, le cose somme si incontrano con le infime, il cielo si congiunge con la terra, e del visibile e dell’invisibile si forma una cosa sola?

E’ necessario però che quando celebriamo il sacrificio facciamo a Dio pure l’immolazione di noi stessi mediante la contrizione del cuore (cfr. Rm 12,1), perché, celebrando i misteri della passione del Signore, dobbiamo imitare quello che compiamo. Cristo sarà veramente per noi ostia di riconciliazione con Dio, se ci faremo vittima noi stessi”.

Nel medioevo e nell’età moderna sono state costruite le teorie più diverse sul sacrificio della messa, senza prendere come orientamento i Padri né quanto si legge nei più antichi testi liturgici. Oggi viene accentuato soprattutto il carattere conviviale della cena, dando alla celebrazione dell’eucaristia una forma con esso corrispondente. Ma ogni posizione unilaterale è errata: cena e sacrificio si implicano a vicenda.

Il pasto viene in evidenza soprattutto nella distribuzione della comunione, il sacrificio nella grande preghiera di ringraziamento recitata dal sacerdote. Questa nei libri liturgici orientali porta il nome di anaphora (preghiera sacrificale).

In quelli occidentali viene denominata in modo corrispondente immolatio (missae), illatio e prex (oblationis).9 All’interno di questa preghiera si compie tanto il sacrificium laudis, con il ringraziamento per la redenzione e la salvezza eterna avvenuta mediante Cristo,10 quanto l’offerta del pane e del vino, e soprattutto, per adempiere il comando di Gesù, la memoria del Signore e la consacrazione delle sacre specie.

(Titolo originale: Die Messe ein Opfer – seit wann?, in Fragen in die Zeit. Kirche und Liturgie nach dem Vatikanum II, Regensburg 1989, 48-52. Traduzione italiana di Fabio Marino)

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1 Il termine Missa equivale a “sacrificio” (oblatio); cfr K. Gamber, Missa Romensis: Beiträge zur frühen römischen Liturgie und zu den Anfängen des Missale Romanum (“Studia patristica et liturgica 3”), Regensburg 1970, 176-183.

2 Gamber, op. cit., 182.

3 Cfr J. Betz, Die Prosphora in der patristischen Liturgie, in Opfer Christi und Opfer der Kirche, hg. von B. Neunheuser, Düsseldorf 1960, 99-116, qui 103. Su quanto segue cfr pure K. Gamber, Das Opfer der Kirche nach dem Neuen Testament und den frühesten Zeugnissen (“Beihefte zu den Studia patristica et liturgica 5”), Regensburg, 1982.

4 Analogamente Dial. 117,1.

5 Qualcosa di simile si ha nelle liturgie orientali, ove, come nell’Anafora di Crisostomo, si dice: “Ti offriamo il tuo e del tuo, in tutto e per tutto”.

6 Cfr Gamber, Missa Romensis, cit., 187-194.

7 Sulla questione della traduzione “per molti” cfr. K. Gamber, Zum Herrn hin! Fragen zum Kirchenbau und Gebet nach Osten (“Beihefte zu den Studia patristica et liturgica 18”, Regensburg 1987) 66-73 [In proposito in italiano K. Gamber, Il problema della traduzione “per tutti”. Nuovi punti di vista nella discussione sulla formula di consacrazione del calice, in “Una Voce Notiziario” n. 81-82 (1987) 8-12, NdT qui].

8 Cfr R. Schulte, Die Messe als Opfer der Kirche. Die Lehre frühmittelalterlicher Autoren über das eucharistische Opfer (“Liturgiew. Quellen und Forschungen 35”), Münster, 1959.

9 Cfr Gamber, Missa Romensis, cit., 56-58.

10 Cfr K. Gamber, Liturgie übermorgen. Gedanken über die Geschichte und Zukunft des Gottesdienstes, Freiburg 1966, 39-51.

Cfr. «Notizie», 200, 1994, pp. 1-4.

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