A incominciare dall’ottavo secolo, i rituali e le spiegazioni dei riti della messa divengono meno rari, ma nessun documento supera in importanza la collezione degli Ordines Romani, per mezzo dei quali possiamo seguire tutto lo svolgimento della liturgia papale in Roma durante il medio evo. Non è cosi facile di determinare sempre esattamente la data cronologica di questi cerimoniali, che spesso sono delle semplici compilazioni mnemoniche, eseguite in epoche diverse su documenti più antichi. Infatti, non v’ha nulla di più impersonale della liturgia, ed è per questo che non è sempre facile di distinguere cronologicamente le successive stratificazioni di questi documenti1. L’Ordo Romanus I al quale per ora ci riferiamo, venne definitivamente redatto nel secolo VIII, ma gli elementi più antichi che contiene riflettono bene le condizioni della liturgia papale dopo la riforma di san Gregorio; è quello il periodo delle grandi processioni stazionali, che vennero appunto richiamate in uso dal celebre Pontefice, dopo che un secolo d’ansie, di guerre e d’assedi le aveva fatte quasi andare in disuso2.
Quando la messa non era preceduta da una processione, il Papa si recava direttamente alla Chiesa prescelta per la statio, e nel secretarium, aiutato dalle prime dignità del palazzo apostolico, indossava i sacri paramenti, frattanto che i vescovi, il clero e i monaci prendevano i loro posti nel tempio. Quando tutto era all’ordine, un suddiacono regionario si affacciava alla porta della sacrestia, chiamando: Schola; e compariva allora innanzi al Pontefice il parafonista, annunziando i nomi dei solisti per l’epistola e il graduale. Aggiunge l’Ordo, che dopo ciò, non era più lecito di mutare i cantori, sotto pena di non essere ammesso alla sacra Comunione per quel giorno.
Il corteo papale nei suoi variopinti ammanti di penule, di mappule e di candide tuniche, si disponeva finalmente a fare il suo ingresso trionfale nella basilica. A un cenno del Pontefice, un Suddiacono avvisava il parafonista d’intonare l’antifona dell’introito i questi s’inchinava verso il priore della “Schola”: domne iubete, e i cantori disposti sui due lati innanzi all’altare, eseguivano le melodie dell’Antifonario Gregoriano. I sette diaconi entravano allora nel secretarium ad accompagnare il Papa, il quale, appoggiandosi ai principali dignitari della corte lateranense, entrava processionalmente nell’aula. Però, innanzi di salire il presbiterio, il corteo si fermava alquanto, onde permettere al Pontefice d’adorare dentro un cofanetto una particella della sacra Eucaristia, riservata a tal fine da una messa precedente all’uopo di conservarla sull’altare durante la ceremonia, siccome simbolo della perennità del sacrificio, che dal Golgota si perpetua nella Chiesa sino al giorno della parusia finale3, donec veniat.
Traversando il recinto marmoreo riservato ai cantori, il Papa saliva finalmente al tribunal, ove sorgeva la cattedra episcopale di fronte all’altare. Quivi egli scambiava subito l’amplesso di pace col vescovo ebdomadario, coll’arciprete e coi suoi diaconi, e mentre ad un suo cenno il priore della “Schola” già conchiudeva il salmo d’Introito per mezzo della dossologia, egli faceva una breve orazione innanzi all’altare, cui poi terminava col bacio della sacra mensa e del codice dei Vangeli. La basilica echeggiava già delle flebili melodie del Kyrie che si ripetevano incessantemente, e a cui poteva prender parte anche il popolo; quando tutto era pronto, il Pontefice intonava il Gloria, che veniva proseguito dai vescovi e dai preti, divenendo così un vero carme sacerdotale, da un semplice inno mattutino, che era stato sin da principio.
Dopo l’Oratio seguita dalla prima lezione dell’antico Testamento recitata dal suddiacono, saliva l’ambone un solista cum cantatorio, e modulava il responsorio graduale; dopo la seconda lezione del Testamento nuovo, generalmente le lettere Paoline, a seconda dei tempi, succedeva il tratto o il verso alleluiatico; compariva da ultimo sull’ambone il diacono col Vangelo, e ne leggeva un breve tratto, cui poscia il Pontefice soleva commentare e spiegare al popolo, con parole facili e con concetti famigliari.
Altra volta a questo punto si licenziavano i catecumeni e quelli che, in pena dei loro delitti, erano stati esclusi dalla Comunione della Chiesa. Le liturgie orientali ed ambrosiana ancora ne conservano le formole, ma il rito, al pari della grande litania che a questo punto dava principio alla missa fidelium propriamente detta, sono scomparsi già da gran tempo dalla liturgia romana. Nella prima metà del VI secolo, in una chiesa nelle vicinanze di Monte Cassino, il diacono, giusta quanto narra san Gregorio4, pronunciava ancora la forma d’esclusione degli scomunicati, ma le fonti romane posteriori sono affatto mute a tal riguardo.
Frattanto che i sacri ministri distendevano la sindone sull’altare, il Papa accompagnato dai primiceri dei notai e dai defensores, si avvicinava al recinto riservato all’alta nobiltà, onde ricevere personalmente le loro offerte pel santo Sacrificio. Lo seguiva l’arcidiacono, che vuotava man mano le amule di vino presentategli dai fedeli in un largo calice ansato, sostenuto da un suddiacono. Dopo gli uomini, veniva la volta delle donne; onde il Papa si portava al matroneo a ricevervi le offerte delle signore, soffermandosi ai piedi della scalea che conduceva alla tribuna, onde accogliere anche quelle degli alti ufficiali della corte lateranense. I vescovi e i preti frattanto ricevevano quelle del popolo dalla pergula, che chiudeva il luogo sacro riservato al presbiterio. Così il sacrificio che stava per essere offerto alla Divinità, aveva veramente un carattere collettivo e sociale, siccome si esprime tanto bene una delle più antiche preghiere del Sacramentario Gregoriano: Ut quod singuli obtulerunt ad honorem nominis tui, cunctis proficiat ad salutem, in quanto che tutti vi avevano concorso, apprestandone gli elementi materiali, il pane e il vino. Il Papa stesso non era dispensato dal concorrere anch’egli per la sua parte, onde offrire col popolo il suo sacrificio; ed era perciò assai delicato il privilegio concesso a tale riguardo all’orfanotrofio dei Cantori lateranensi, che, a cagione della loro povertà, solevano offrire la sola ampolla d’acqua, che l’arcidiacono riversava nel calice in forma di croce.
In origine, appunto qui aveva luogo la lettura dei dittici coll’oratio super nomina, conservataci nella liturgia gallicana e nell’attuale Secreta dell’orazione A cunctis del messale romano; ma a Roma nel 410 essa era già stata trasportata poco prima della consacrazione. Disposti pertanto sull’altare i vari calici e le oblate – a forma di ciambelle – di pane azzimo per la Comunione, mentre la “schola” ripeteva gli ultimi neumi dell’antifona ad offertorium, il Papa saliva all’altare per dar principio all’ “Actio” eucaristica, propriamente detta. Quanto sinora ha preceduto, non apparteneva punto al sacrificio, onde anche adesso il coro attende seduto che il sacerdote inizi il praefatio. I vescovi ed i preti si dispongono in doppia fila dietro il Papa; i suddiaconi vanno a prender posto presso i cancelli che separano la tribuna del clero dal popolo, e tutti rimangono ai loro posti immobili ed inchinati fino al termine del Canone. Poco prima però del Pater, l’arcidiacono si accostava al Pontefice, e quando questi, sollevando in alto a vista del popolo la sacra Ostia, recitava la dossologia finale per Ipsum, anch’egli elevava in alto uno dei calici eucaristici che stavano sull’altare. Era la solenne ostensione dei sacri Misteri, comune a quasi tutte le liturgie di cui l’attuale elevazione medievale non è che uno sdoppiamento.
Le particelle eucaristiche che a questo punto dell’azione sacra sono distaccate dalla santa Ostia consacrata dal Pontefice, vengono consegnate agli accoliti, perché le rechino ai preti titolari nelle loro parrocchie, affinché nella loro messa, precisamente al termine del Canone, le depongano nel sacro Calice, ad indicare l’identità del Sacrificio e del Sacramento che nutre e santifica così il pastore che l’intero gregge.
L’ultimo saluto del Papa al popolo prima di compiere la fractio dei sacri Misteri che simboleggia la morte violenta della vittima divina, è un augurio di pace: Pax Domini sit semper vobiscum; e la pace invocata dal pastore viene tosto scambiata tra il clero, i nobili e il popolo, mediante l’amplesso apostolico, l’ “osculum sanctum”; l’arcidiacono lo riceve dal Pontefice e lo ricambia col primo dei vescovi; gli uomini e le donne s’abbracciano separatamente, mentre il medesimo fanno i nobili e le matrone nel “senatorium” e nel “matroneum”. La “Consecratio” e il sacrificio sono già compiuti al termine del Canone; tanto che nel rito gallicano i vescovi a questo punto solevano benedire il popolo, onde dar licenza a quanti non intendessero di comunicarsi. A Roma il Papa lasciava l’altare per far ritorno alla cattedra, donde impartiva le sue istruzioni al “nomenclator”, al sacellario e al notaio del vicedomino, per gl’inviti a desinare, così alla propria mensa che all’altra, imbandita in suo nome, nelle sale del vicedomino. Questi inviti erano tosto comunicati lì stesso in chiesa, tanto intimamente il ricordo dell’agape era ancora connesso col banchetto eucaristico.
Frattanto, i vescovi, i preti e i diaconi che fanno corona al trono papale, procedono solennemente alla fractio panis, spezzano cioè il pane eucaristico, che vien loro presentato dagli accoliti entro sacchetti di lino, deponendone i morselli sulle patene; alle melodie della “schola” che intona il canto tanto espressivo dell’Agnus Dei, sin dai tempi di papa Sergio I (687-701) usò far eco anche il popolo, conferendo così una solenne maestà a questa simbolica “fractio” che, dopo la consacrazione e l’epiclesi, è il momento più caratteristico dell’azione eucaristica.
Spetta al secondo dei sette diaconi di presentare al Papa la sacra particola per la Comunione; questi però nell’assumerla ne distaccava prima un frammento, che l’arcidiacono riponeva nel calice ansato, donde poi il Pontefice sorbiva il prezioso Sangue del Signore.
Deposto nuovamente il calice sull’altare, l’arcidiacono annunziava ai fedeli il luogo e il giorno della futura stazione; e perché al numero grande dei devoti che s’accostavano alla Comunione non sarebbe stato sufficiente un unico calice, così, a esprimere anche materialmente l’identità del sacrificio di cui tutti partecipavano, dal calice papale soleva riversarsi nel grande scifo del popolo alcune stille del vino eucaristico. I vescovi e i preti ricevevano la loro particella del pane consacrato di mano del Papa; quindi s’accostavano per comunicarsi al calice pontificio presentato loro dall’arcidiacono, e quanto ancora sopravanzava dopo la loro Comunione, veniva parimente infuso nello scifo del popolo. Perché poi i fedeli con più riverenza e minore difficoltà partecipassero alla Comunione sotto ambedue le specie, senza alcun pericolo d’effusione, un suddiacono regionario adattava al calice una fistola di metallo prezioso, anche oggi in uso nella messa papale.
Terminata la Comunione dell’alto clero, frattanto che i cantori eseguivano l’antifona e il salmo della Comunione, il Papa, i vescovi e i preti distribuivano i santi Misteri ai nobili e al popolo. I diaconi sostenendo i calici ansati assistevano il Papa e i vescovi; tra i preti, alcuni distribuivano le sacre particole, altri sostenevano lo scifo.
Appena comunicati i nobili e le matrone, mentre gli altri erano ancora occupati a distribuire il santo Sacramento al popolo, il Pontefice ritornava alla cattedra per comunicare i regionari e, nei dì festivi, anche dodici fanciulli tra i prescelti nella Scuola dei Cantori. Perciò i suddiaconi, già comunicati antecedentemente, venivano in aiuto della “schola” così che l’una e gli altri cantavano alternativamente l’antifona e i versi del salmo di Comunione, finché non fosse terminata la distribuzione dei sacri Misteri. Solo allora a nome di tutti il Papa innanzi l’altare recitava la colletta ad complendum, in ringraziamento dei sacri doni ricevuti; un diacono cantava la formola del congedo: ite, missa est, e risposto dal popolo Deo gratias, il corteo pontificio si disponeva finalmente a rientrare nel “secretarium”. Precedevano sette accoliti coi candelabri accesi; un suddiacono agitava lievemente il turibolo fumigante; indi veniva il Papa, seguivano i vescovi, i preti, i monaci, la “schola”, i gonfalonieri e gli altri grandi ufficiali del Patriarchio. Durante la sfilata, tutti s’inchinavano al passaggio del Pontefice: Iube, domne, benedicere, dicevano, cui il Papa rispondeva: Benedicat nos Dominus5.
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1 Cf. P. L., LXXVIII, 937 seg.
2 Cf. H. Grisar, La più antica descrizione della Messa pontificia solenne, “Civiltà Cattol.” 20 magg. 1905, p. 463 seg.
3 “Salutat Sancta”. Il rito è parallelo a quello descritto da san Germano di Parigi nella sua “Expositio Missae”, P. L., LXXII, 92, 3, e da Gregorio di Tours nel “De Gloria Martyr.”, c. lxxxv. Esso era comune anche alla liturgia greca e infatti l’adorazione prestata dai fedeli al passaggio del sacerdote coi “santi Doni” durante il grande introito, qualunque spiegazione oggi le si voglia dare dagli Orientali, sembra derivata appunto dal rito di recare in processione come i Latini la santa Eucaristia. Anche san Germano ricorda questa adorazione: “incurvati adorarent”.
4 Dialog., lib. II, 23.
5 Ordo Romanus I, P. L., LXXVIII, 937 seg.
Cfr. A. I. Schuster, Liber sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Missale Romanum – I. Carmi di Sion lungo le acque della Redenzione (Nozioni generali di Sacra Liturgia)3, Torino-Roma, Marietti, 1932, pp. 63-68.