Poco discosto dal titolo di Balbina s’eleva la basilica «de fasciola» che una tradizione molto antica poneva in relazione con san Pietro, allorché ad evitare la persecuzione si sarebbe allontanato da Roma. Ad un miglio circa della via Appia si sarebbe sciolta la fascia che copriva la gamba dell’Apostolo tutta piagata dai ceppi che l’avevano stretto in prigione, e Cristo stesso gli sarebbe apparso in atto di entrare in città. Domine, quo vadis? – dice allora san Pietro al divin Maestro. –Eo Romam iterum crucifigi, risponde Gesù, e dispare. A quelle parole Pietro comprende che il Salvatore avrebbe dovuto essere messo a morte in Roma nella persona del suo primo Vicario, ed ubbidiente al comando ritorna tosto in città.
Allo stato attuale dei documenti, ignoriamo quale possa essere stato il fondamento di questa graziosa leggenda; certo si è che essa è molto antica, ed il suo valore trova un addentellato nel nome stesso «de fasciola» attribuito al Titolo insin dal principio del iv secolo.
Sotto l’altare vi si conservano i corpi dei martiri Nereo, Achilleo e Domitilla, ivi trasferiti una prima volta dal vicino cimitero di Domitilla sull’Ardeatina, quando questo dopo i tempi di Paolo I cadde in abbandono e in dimenticanza. In seguito, desolata tutta la regione della via Appia dalla malaria, anche il titolo della fasciola andò in rovina, sicché i corpi dei suoi Martiri furono trasportati nell’interno della Città, nella diaconia di Sant’Adriano al Foro.
Quando in sulla fine del secolo xvi il Cardinal Baronio divenne titolare della basilica della fasciola, fece ristaurare i mosaici dell’arco trionfale del tempo di Leone III, trasferì nuovamente da Sant’Adriano al proprio titolo i corpi dei santi Nereo, Achilleo e Domitilla, e sul loro sepolcro eresse un nuovo altare cosmatesco, già esistente nella basilica di San Paolo sull’Ostiense.
L’odierno Messale Piano oggi assegna la stazione alla chiesa di Santa Prassede, il che deriva dall’uso dell’estremo medio evo, quando cioè il titolo «de fasciola» se ne giaceva abbandonato.
Il «titulus Praxedis» sull’Esquilino comparisce la prima volta in un’epigrafe del 491, venuta alla luce nel cimitero d’Ippolito sulla via Tiburtina e che ricorda uno dei suoi preti. Pasquale I che ne fu titolare la ricostruì dalle fondamenta, spostandola però alquanto di sito, ma a rendere più venerabile il nuovo edificio, vi depose un gran numero di corpi di Martiri, colà trasportati dai cimiteri suburbani, oramai caduti in abbandono.
Oltre i mosaici dell’abside, sono pure assai importanti quelli dell’oratorio di San Zenone, ove sino al 1699 questo prete martire riposava a fianco del fratello suo, Valentino. Vi si venera altresì una antica immagine della S. Vergine, ed una colonna di diaspro sanguigno portata in Roma da Gerusalemme nel 1223, perché una tradizione affermava che fosse quella a cui venne legato il Divin Salvatore durante la sua flagellazione.
Sotto l’altare maggiore è deposto il corpo della Santa titolare della basilica, ed in una cripta sotto il presbiterio riposano tutti quei numerosi corpi di Martiri, tolti da Pasquale I ai cimiteri fuori di Roma; per modo che questa basilica, a cagione della sua antichità, dei monumenti artistici e delle sacre reliquie che custodisce, può considerarsi come uno dei più insigni santuari di Roma cristiana.
Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 190-191.