L’altro ieri il Cristo sulla Croce s’è rivestito per noi di maledizione; è morto su d’un infame patibolo, abbandonato qual reo alla inesorabile giustizia di Dio, non meno che alla rabbia dell’inferno ed all’odio dei suoi nemici. Egli è morto, e con lui è morta tutta l’umanità, la quale, come morì già una prima volta alla santità e all’innocenza originale a cagione del peccato d’Adamo, così adesso nel Cristo e pel Cristo muore al peccato e alla vecchia Legge, rendendosi per mezzo della fede solidaria dell’espiazione e del sacrificio di Gesù.
È però finalmente giunto il momento in cui questa povera umanità, quest’umanità così fiaccata, contusa e lacera nel Divin Crocifisso, la quale tuttavia ha dato a Dio una condegna soddisfazione del proprio errore, sia reintegrata nell’antico onore. Gesù sulla Croce s’abbandona e si dà al Padre. Il Padre gradisce quest’offerta, ed accogliendo il dono – un freddo cadavere tutto ricoperto di sputi e di ferite – nel proprio cuore, lo riscalda del fuoco del suo essere e gli comunica la sua vita. Gesù risorge da morte all’alba del terzo giorno; ma, come egli aveva associato alla propria espiazione tutta intera l’umanità, così egli unisce al suo trionfo l’intero suo corpo mistico, sul quale dal capo trasfonde la gloria della sua resurrezione.
Egli dunque è morto, come insegna l’Apostolo, a cagione dei nostri peccati, ed è risorto onde distruggerne gli effetti, reintegrandoci nella grazia, nella giustizia e nei diritti alla gloria. La Pasqua dunque di Gesù è la Pasqua nostra, perché, se nel vespero della Parasceve tutti quanti morimmo in lui sulla Croce, questa notte in lui altresì risorgiamo a vita nuova secondo Dio.
Ecco pertanto il motivo per cui la Chiesa, specialmente in Occidente, sin dalla remota antichità ha riservata alla solennità pasquale l’amministrazione solenne del battesimo, in grazia del quale, come appunto spiega san Paolo, noi discendiamo nella piscina, quasi ad esservi sepolti col Cristo, per indi risorgerne ad immagine della santità sua, a vita nuova di grazia.
V’è quindi un intimo nesso tra il battesimo e la festa di Pasqua; onde la Chiesa nella liturgia solenne di questa settimana, intreccia e fonde insieme questi due concetti, queste due resurrezioni, per cantare le glorie di un’unica Pasqua, quella di Gesù capo e del suo mistico corpo.
Un’antica tradizione orientale riferiva, che la venuta finale del Cristo – la quale, in grazia dell’universale resurrezione dei corpi, può veramente ritenersi siccome l’integrazione e la pienezza della Pasqua Cristiana – dovesse accadere nella notte anniversaria della resurrezione del Signore. Il popolo perciò si adunava in chiesa e vegliava in attesa della parusia; trascorsa la mezzanotte e visto che niuno era ancora apparso dal cielo, si conchiudeva che per quell’anno il mondo non sarebbe ancora finito, e si celebrava la Pasqua.
Comunque sia, la tradizione di trascorrere in preghiera la notte tra il sabato e la domenica pasquale, è antichissima. Tertulliano ne discorre come d’una legge di cui s’ignora l’istituzione, e dalla quale nessuno poteva esimersi. Fu solo nel tardo medio evo che la cerimonia venne anticipata definitivamente nel pomeriggio, e poi nella mattina del sabato santo.
La più antica descrizione della veglia pasquale, ci è fornita da Giustino Martire nella sua Apologia, dove il battesimo seguito dalla messa, così come egli ci narra, dovevano essere precisamente i riti che stiamo descrivendo, giacché essi seguivano un digiuno solenne e pubblico, non solo dei catecumeni, ma dell’intera comunità cristiana; digiuno che, a quel tempo, non potrebbe venir identificato che col digiuno precedente la solennità della resurrezione del Signore.
Nell’evo classico della sacra liturgia in Roma, cioè dopo il periodo gregoriano, tutta la cerimonia della veglia di Pasqua si svolgeva magnificamente in Laterano, così come descrivono i più antichi Ordines Romani. Da principio tuttavia, il battesimo in Roma era posto in relazione con Pietro, onde lo si amministrava nel cimitero ad Nymphas ubi Petrus baptizabat tra la Nomentana e la Salaria, nel santuario apostolico ad Catacumbas, e più particolarmente, nel battistero damasiano a San Pietro. A quest’ultimo infatti con grande probabilità si deve riferire quell’epigrafe letta e ricopiata nelle antiche sillogi romane, e che abbiamo già citato nel precedente volume: Auxit Apostolicae geminatum Sedis honorem. L’importanza di quei versi sta tutta nel nesso che essi stabiliscono tra il battesimo romano e i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Questa sede, dice l’anonimo poeta, è già celebre perché fondata dai due Capi dell’Apostolico Collegio; ma il Cristo l’ha voluta sublimare ancor di più; imperocché Colui cui Egli affidò l’eterea porta del regno, si vale anche in questo tempio della seconda chiave che schiude le avamporte del cielo.
La sacra cerimonia che sta per svolgersi sotto i nostri sguardi, e che esprime con colori tanto suggestivi e smaglianti una santa e tremenda realtà, la resurrezione cioè del Cristo e della Chiesa, consta di tre parti distinte: dapprima l’ufficiatura vigiliare, cui fa da preludio il rito della benedizione lucernare, quindi il battesimo e poi la messa. Originariamente, tranne il battesimo, l’ordinaria pannuchis che nel iii secolo santificava in ciascuna settimana la notte tra il sabato e la domenica, non doveva comprendere riti molto diversi da quello che l’odierno Messale Romano prescrive per la Vigilia Pasquale. Anzi, prima che la pietà monastica creasse verso il v secolo il tipo dell’Ufficio notturno contenuto nei nostri Breviari, la più remota antichità cristiana, nelle sue ordinarie veglie domenicali e negli anniversari dei Martiri nelle cripte dei cimiteri e nei Titoli urbani, non conosceva altro schema d’Ufficio vigiliare, che quello giusta il quale è stata appunto redatta la solenne preparazione liturgica alla festa di Pasqua; in modo che, l’odierna funzione del Messale in Vigiliis Paschae, rappresenta e conserva intatto il tipo primitivo dell’ufficio notturno giusta l’uso Romano.
La prima parte della odierna cerimonia, ha per oggetto la benedizione del fuoco e del cereo pasquale. Essa però non è altro che un’alterazione della primitiva Eucharistia lucernaris, e come tale è affatto estranea all’antica tradizione liturgica della Sede Apostolica, tanto che esula affatto dai più antichi Ordini Romani. Il merito di averla introdotta nell’Urbe, va dato a quella specie di compromesso tra gli usi gallicani e la liturgia romana, che venne conchiuso nel primo periodo carolingio; di guisa che il risultato di questa fusione, in grazia dei nuovi dominatori Franchi, finì per ottenere diritto di cittadinanza anche nella Città dei sette colli.
Abbiamo già detto più sopra dell’Eucharistia lucernaris, senza che dobbiamo ritornare nuovamente sull’argomento. Per quanto si riferisce in particolare a questa prima parte della liturgia romana nella vigilia pasquale, gioverà di osservare che tutta l’attuale benedizione del fuoco con le sue quattro collette di ricambio, per quanto siano veramente ispirate e commoventi, rappresenta tuttavia un curioso equivoco nell’interpretazione della rubrica e della terminologia medievale. Infatti, non si trattava già di fuoco, d’un braciere, e meno ancora, delle lacrime dell’incenso; l’oggetto del sacro rito invece era il Lucernario, o l’illuminazione della candela serale, che al principio della sacra Veglia doveva accendersi a fianco del leggio, come una specie di poetico sacrificio di luce, affinché il cereo, si struggesse in omaggio a Colui che è luce da luce, e viene a diradare le tenebre del mondo. Questo appunto vuol essere quel claritatis tuae ignem di cui parla la prima orazione, quel lumen, cioè, quod a te sanctificatum atque benedictum est. Anzi, la stessa colletta che ora la rubrica del Messale attribuisce alla benedizione dei grani d’incenso, in realtà si riferisce ad un nocturnum splendorem, il quale dev’essere acceso, onde arcana luminis tui admixtione refulgeat. In una parola, si tratta del cereo pasquale, dal quale precisamente, come c’informa Ennodio e come ancora attesta la stessa preghiera del Messale, gli antichi fedeli solevano riportare a casa dei piccoli frammenti a titolo d’eulogie: In quocumque loco ex huius sanctificationis mysterio aliquid fuerit deportatum, expulsa diabolica fraudis nequitia, virtus tuae maiestatis assistat. Di quest’uso, qualche cosa ancor rimane. Anche ai dì nostri, in molte parti d’Italia, il popolo ha conservato grande devozione pei frammenti, non più del cereo Pasquale, ma delle candele del Lumen Christi, che vengono perciò racchiusi entro borsette di seta per essere sospese al collo dei bambini. Non sappiamo come dalla candela vigiliare il concetto siasi tanto dilungato, da andare a pensare alle lagrime resinose dell’incenso, mentre la parola incensum, e le espressioni incensi sacrificium, incensum lucernae, sin dal v secolo esprimevano indubbiamente e denotavano l’accendersi rituale della candela, che doveva rischiarare in chiesa, e precisamente a fianco dell’ambone, le sacre Vigilie.
La triplice candela che accende il diacono al canto delle parole: Lumen Christi, sembra un altro rito di ricambio per il Lucernare. Forse dalla lontana liturgia Ispanica, la ceremonia giunse a Roma pel tramite dei riti gallicani.
Segue un terzo formulario dell’Eucharistia lucernaris, e questa volta è quello classico, già attribuito a sant’Agostino. Ad ogni modo, esso data almeno dal quarto secolo, quando cioè cominciò tutta quella fioritura di composizioni liturgiche in forma d’anafora, di cui il Sacramentario Leoniano ci conserva talora dei curiosi campioni.
San Girolamo deplora l’ispirazione quasi profana che parecchi diaconi di allora davano al preconio pasquale, citando Virgilio a proposito delle api laboriose e caste. Temi siffatti vennero sviluppati ancora per parecchi secoli in occasione della veglia di Pasqua; il rotolo dell’Exsultet di Bari del secolo XII ne contiene la prova.
La formola Romana si distingue per la sua sobrietà ed unzione. Essa non manca di slancio lirico, e talvolta l’ispirazione è così veemente, che sta quasi per trasportare l’autore nelle regioni più sublimi della mistica cristiana, come quando vuole stabilire i vantaggi che sono ridondati all’umanità dalla presente economia di redenzione del mondo già perduto per il peccato. Senza dubbio, il piano attuale prescelto da Dio per raggiungere la propria glorificazione per mezzo di Gesù salvatore del genere umano, tra tutti è il più degno della Divinità, il più glorioso per il Cristo, il più utile per noi. In questo senso si può pur dire colla Chiesa: o felix culpa, o certe necessarium Adae peccatum, giacché questi mali nella sapienza di Dio sono stati appunto le cause occasionali di tanto bene. Perciò, solo una mente gretta, che si ferma al semplice concetto del peccato e dell’offesa di Dio, e non allarga le sue considerazioni a tutto il grandioso piano divino della riparazione del mondo, come Dio sa trarre il massimo bene anche dal male, può trovare a ridire sulle frasi dianzi citate. Esse, prese fuori dal contesto, certo sbigottiscono una mente pia, – ed è così che a Cluny vennero soppresse – ma intese nel senso che emerge da tutta la composizione, esprimono veramente il grido di entusiasmo e di gratitudine che erompe dall’anima credente, quando si fa a contemplare il mistero della sua redenzione. Come dinanzi al Giudizio di Michelangelo nella Sistina, una mente che sente meno forte del grande Artista il fremito del Dies irae, dies illa, troverà esagerata e barocca tutta la scena, dove avanti al tremendo Giudice sembra quasi che tremi la stessa sua Divina Madre! A comprendere certi potenti effetti del genio, bisogna prima sentirli, e questo vale sopratutto per la sacra liturgia, a ben gustare la quale, è necessario di riviverla nell’anima.
Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – IV. Il Battesimo nello Spirito e nel fuoco (La Sacra Liturgia durante il ciclo Pasquale), Torino-Roma, Marietti, 1930, pp. 45-49.