Essendo ignota nei primi tempi la data storica della natività temporale del Salvatore, un’antica tradizione inaugurata forse ai principi del II secolo, celebrava le varie teofanie del Cristo nella sua natura mortale, la sua nascita cioè, il suo battesimo nel Giordano e la sua manifestazione ai Magi poco dopo il solstizio d’inverno, nei primi dieci giorni di gennaio. Questa data convenzionale aveva già trovato credito in tutte la Chiese, quando, non si sa come, Roma sdoppiò per suo conto la festa delle Teofanie, anticipando ai 25 dicembre l’anniversario della nascita temporale del Salvatore. Quando e come la Chiesa Madre giunse a stabilire tale data? Lo ignoriamo, giacché, messo da parte un testo assai dubbio del Commentario d’Ippolito su Daniele, il più antico documento che assegni il Natale al 25 dicembre è il Calendario Filocaliano del 336, il quale reca quest’indicazione: VIII Kal. ian. natus Christus in Betleem Iudee. Evidentemente il Cronografo non annunzia nulla di proprio, ma si fa l’eco della anteriore tradizione romana, la quale nel Liber Pontificalis pretende di risalire sino a papa Telesforo. Nel discorso tenuto in san Pietro da papa Liberio in occasione che il giorno di Natale diede il velo di verginità a Marcellina, sorella di sant’Ambrogio, non vi si rileva alcun accenno alla novità della festa, ma anzi tutto il contesto conferma l’impressione che trattisi d’una solennità d’antica data, alla quale il popolo suole accorrere in folla per antica consuetudine.
La festa di Natale fu da principio propria della Sede Apostolica. Il Crisostomo che l’introdusse in Antiochia verso il 375, si appella appunto all’autorità della capitale del mondo latino, dove, a suo avviso, si sarebbero ancor conservati gli atti del censimento di Quirino colla data precisa della nascita di Cristo a Bet-lehem il 25 dicembre. Da Antiochia la festa passò a Costantinopoli; sotto il vescovo Giovenale, tra il 424-58, essa venne introdotta a Gerusalemme, quindi verso il 430 fu ammessa anche ad Alessandria, e da queste celebri sedi patriarcali si diffuse un po’ alla volta anche nelle diocesi loro dipendenti. Attualmente solo i monofisiti Armeni celebrano ancora il natale di Cristo alla sua primitiva data, il 6 gennaio.
Non è da trascurare però una coincidenza. Il calendario civile della collezione Filocaliana, ai 25 dicembre nota il Natalis invicti, cioè del sole, la cui nascita coincide appunto col solstizio invernale. In un tempo quando, in grazia dei misteri mitriaci, il culto dell’aureo astro del giorno aveva preso tale sviluppo che, a dir di san Leone, gli stessi devoti che frequentavano la basilica vaticana si permettevano d’unirvi il rito superstizioso di salutare prima in sull’atrio dell’Apostolo il disco solare, non è improbabile che la Sede Apostolica coll’anticipare ai 25 dicembre la nascita del Cristo abbia voluto contrapporre al Sol invictus, Mitra, il vero Sole di giustizia, cercando così di stornare i fedeli dal pericolo idolatra delle feste mitriache. In un’altra occasione affatto simile, per la festa cioè dei Robigalia il 25 aprile, Roma adottò un’identica misura di prudenza, e al corteo pagano al Ponte Milvio sostituì la processione cristiana che percorreva il medesimo tragitto; solo però che dalla via Flaminia e dal Ponte Milvio il clero voltava poi verso la basilica Vaticana, per finire poi coll’offerta del divin Sacrificio sul sepolcro dell’Apostolo.
La caratteristica della festa di Natale nel rito romano è l’uso delle tre messe, una al primo canto del gallo – ad galli cantum -, l’altra in sull’albeggiare, e la terza in pieno giorno. Questa consuetudine ci viene già attestata da san Gregorio, ma è sicuramente più antica, giacché l’autore della biografia di papa Telesforo nel Liber Pontificalis pretende di sapere che fu appunto questo Pontefice ad introdurre pel primo il canto del Gloria in excelsis nella messa della notte di Natale.
La pannuchis natalizia colla messa in fine, oltre che dalla solennità, in certo modo era suggerita anche dalla circostanza che il Cristo era nato a Bet-lehem nel cuore della notte; e come a Gerusalemme, così anche a Roma si volle riprodurre liturgicamente quella scena notturna, tanto più che Sisto III aveva edificato a santa Maria Maggiore un suntuoso oratorio ad praesepe, il quale nella concezione romana doveva essere come una riproduzione di quello di Bet-lehem.
Questa messa vigiliare non costituiva però, com’è adesso, una speciale caratteristica della solennità natalizia; era il consueto Sacrificio che regolarmente poneva termine alle sacre vigilie. Anzi, se dobbiamo argomentare la frequenza dei devoti dalla vastità del luogo in cui si celebrava la Stazione, convien conchiudere che il piccolo ipogeo ad praesepe contenesse un’adunanza assai ristretta di persone; tanto ristretta, che in una notte natalizia, mentre Gregorio VII vi celebrava la messa, egli poté esservi arrestato dagli sgherri di Cencio ivi posti in agguato, tratto via da Santa Maria Maggiore, e trascinato prigioniero in una torre del Parione, senza che il popolo romano sino alla mattina appresso s’avvedesse punto di ciò che era accaduto al Papa durante la Stazione.
La vera messa solenne del Natale, in die sancto, era quella che si celebrava di pieno giorno a san Pietro. Fu appunto durante la messa natalizia a san Pietro che, a testimonianza di sant’ Ambrogio, papa Liberio innanzi a una gran folla di popolo diede il velo verginale a Marcellina. In quell’occasione il Pontefice tenne un celebre discorso conservatoci dal Santo nel De Virginibus, e di cui ci basta di riferire queste parole: «Tu, mia figlia, hai desiderato delle nozze assai sublimi. Tu vedi qual massa di popolo sia accorsa al genetliaco del tuo sposo, e come nessuno se ne parta non nutrito». Se tutta quella gente attendeva ancora di comunicare alla messa papale, è un indizio questo che il concorso alla messa vigiliare e a quella dell’alba era stato ben poca cosa.
Il giorno di Natale del 431 papa Celestino ricevé le lettere che l’informavano circa la riuscita del concilio d’Efeso. Egli le fece leggere innanzi «all’adunanza di tutto il popolo cristiano, a san Pietro».
Tra la messa vigiliare al Presepio e quella stazionale al Vaticano, verso il V secolo, in grazia della colonia Bizantina residente in Roma, prese luogo un’altra sinassi eucaristica ai piedi del Palatino. Essa aveva per oggetto di celebrare il natale della martire di Sirmio, Anastasia, il cui corpo era stato trasportato a Costantinopoli sotto il patriarca Gennadio (458-71). Fu scelto a Roma il titulus Anastasiae perché gli atti identificavano la Martire colla fondatrice della Chiesa. Passati i Bizantini, scemò pure la popolarità della devozione a sant’Anastasia, ma sopravvisse la Stazione, che però, invece della festa natalizia della Martire com’era da principio, importò una seconda messa mattutinale in venerazione del mistero della nascita corporale del Signore.
Originariamente la trina celebrazione del divin Sacrificio nel giorno di Natale era propria del Papa o di chi presiedeva la sinassi stazionale; anzi questa politurgia non era già qualche cosa d’assolutamente insolito in Roma. Anche la festa degli apostoli Pietro e Paolo godeva l’onore delle tre messe, quella dei figli di santa Felicita ne importava quattro, e generalmente tutte le altre grandi solennità dei martiri ammettevano più messe quanti appunto erano i santuari in venerazione. Le messe erano per lo meno due, quella ad corpus nell’ipogeo sepolcrale del Santo, e l’altra la missa publica, come la chiamavano, nella basilica superiore. Tale disciplina è affine un po’ a quella che regola attualmente la celebrazione delle messe conventuali negli odierni Capitoli Collegiali. Ricorrono spesso dei giorni in cui il Calendario assegna due o anche tre messe conventuali; questo però non vuoI dire che il medesimo sacerdote debba offrire egli per la seconda e la terza volta nello stesso giorno il santo Sacrificio, e meno ancora che fuori di coro ogni prete sia autorizzato in quei giorni a celebrare più messe. Indica soltanto il numero dei Sacrifici cui il Capitolo Collegiale è tenuto di assistere. Così era pure in antico pei giorni politurgici; si ufficiavano i vari santuari che ricordavano l’eponimo della festa, e spesso vi presiedeva personalmente il Papa, che offriva allora il divin Sacrificio. Ma fuori dei medesimi santuari in cui si celebrava la festa, pei presbiteri addetti ai diversi titoli urbani, non si dava politurgia, e tutto si compieva secondo il modo consueto descritto nei Sacramentari.
I liturgisti del tardo medio evo si sono compiaciuti di ricercare le intime ragioni per cui il dì di Natale si celebrano tre messe; invece però d’esplorare il campo dell’archeologia nel quale avrebbero certo ritrovato traccia dei tre diversi santuari Romani che dovevano essere ufficiati il 25 dicembre, essi si fermarono su dei motivi ascetici e mistici, belli invero ed assai utili a nutrire la devozione, ma affatto estranei alla prima istituzione di questa politurgia romana, e di cui gli Orientali non hanno idea.
La messa della mezza notte – gli antichi veramente la chiamavano ad galli cantus perché sin dal tempo di sant’Ambrogio solo a quell’ora s’incominciava la quotidiana officiatura mattutinale – ricorderebbe la nascita eterna del Verbo di Dio tra gli splendori della paterna gloria; quella dell’aurora celebra la sua apparizione temporale nell’umiltà della carne, e finalmente la terza a san Pietro, simboleggia il suo ritorno finale nel dì della parusia, quando sederà giudice dei vivi e dei morti.
Giusta l’XI Ordine Romano, ai tempi di Celestino II nella notte di Natale ancora si celebravano a Santa Maria Maggiore e coll’assistenza del Papa le due distinte sinassi vigiliari di cui tratta Amalario. Nella prima, le lezioni erano cantate dai canonici, dai cardinali e dai vescovi, precisamente come nella terza domenica d’Avvento a san Pietro i dopo l’ufficio si celebrava la messa ad Praesepe, seguita dal secondo mattutino e dalle laudi.
Nel secolo XV il Pontefice interveniva alle vigilie con una cappa lanea color scarlatto e fornita di cappuccio che si annodava sotto la barba propter frigus, come descrive il XIV Ordine Romano1. Se vi assisteva anche l’imperatore, egli vestito di pluviale e brandendo la spada doveva cantare la quinta lezione, essendo riservata al Papa la nona. Durante la messa, tutte le offerte che il popolo deponeva sull’altare o ai piedi del Pontefice, spettavano ai cappellani, eccetto il pane che apparteneva agli accoliti. Contrariamente all’uso, la notte di Natale il Papa si comunicava, non già in trono, ma all’altare, e nel sorbire il sacro Calice non faceva uso della solita fistola aurea; il clero poi per ricevere la sacra Comunione attendeva sino al mattino seguente.
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1 P. L., LXXVIII, col., 1181.
Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano – II. L’inaugurazione del Regno Messianico (La Sacra Liturgia dall’Avvento alla Settuagesima), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 152-156.