Card. Prospero Lambertini / Annotazioni sopra il santo sacrifizio della messa 72-74
[Non conviene tradurre la messa in lingua volgare]
LXXII. Il punto non consiste qui. Consiste il punto nel vedere se essendo col tratto del tempo quella lingua, che una volta era comune, diventata particolare d’alcuni, cioè dei più dotti ed intesa da essi solamente, ed avendo il rimanente del popolo introdotto un’altra lingua volgare, fosse stato bene, o fosse bene il tradurre i divini offici e la santa Messa nella lingua comune e volgare; e questo è quello che la Chiesa cattolica non ha voluto fare né vuol fare.
LXXIII. Evvi una bella lettera pastorale di monsignor Giacomo Nicola Colbert arcivescovo di Roven su quest’argomento nella raccolta del Bessy dei concili provinciali della provincia rotomagense alla pag. 172 e seguenti. E per vero dire, chi mai di sana mente avrebbe potuto consigliare o potrebbe consigliare acciocché il popolo restasse, o resti istrutto del misterio della Messa, il che potevasi fare, e si può fare comodamente coll’istruzione de’ predicatori e de’ parrochi, la traduzione della predetta Messa dalla lingua, per esempio latina nella lingua volgare, quando tante lingua volgari sono ridicole e dispregevoli; quando, non diremo ogni nazione, ma quasi ogni città ed ogni paese ha una lingua particolare; quando nel corso di non molti anni ogni lingua volgare si va mutando; in tal maniera che Polibio nel lib. 3 delle Storie racconta che quando fu fatta la pace dopo la seconda guerra cartaginese a mala pena s’intendevano i patti della prima pace, essendosi mutata la lingua; quando si aprirebbe un largo campo a mille controversie in ogni traduzione; quando finalmente ancorché il popolo, tradotta la Messa in lingua volgare, ne intendesse le parole non ne capirebbe però il senso, il che sarebbe una sorgente d’infiniti errori. Veggasi Sisto senese nel lib. 5 della Biblioteca santa al cap. 172 ed al lib. 6 cap. 263, il cardinal Osio nel trattato De missa non vulgari, il Silvio nella 3ª part. quest. 83 all’art. 4, il Mebesio nella Somma cristiana alla part. 3ª quest. 54, il Boucat nella sua Teologia Patrum al tom. 5 dissert. 1 De sacris caeremoniis all’art. 2, il Juenin De sacramentis alla dissert. 5 De eucharistia quest. 8 cap. 7.
LXXIV. In comprovazione di quanto abbiamo detto, benché la cosa sia assai chiara, non essere espediente che la Messa sia tradotta in lingua volgare, può valutarsi che fino alla cattività di Babilonia la lingua santa non era differente dalla lingua volgare e gli offici si celebravano nella lingua intesa dal popolo; ed in tempo della cattività il popolo scordossi del puro ebraico, e s’avvezzò a parlare siriaco o caldaico. Terminata la prigionia, nella lezione della legge e nelle preghiere pubbliche fu ritenuto il puro ebraico ancorché il popolo non l’intendesse. Non v’è chi non sappia che il greco litterale è differente dal greco volgare. Nella Chiesa greca fu introdotta la liturgia nel greco litterale che allora era comune a tutti. Prosiegue la liturgia nel greco litterale che non è inteso dal popolo, ma solamente dai dotti. Segno dunque evidente si è, non esser espediente che introdotta la liturgia nella lingua comune del popolo, e divenendo questa col tempo lingua particolare dei dotti, si vada di mano in mano traducendo nella lingua volgare che è intesa dagli ignoranti e dai dotti. Ed in ordine al prossimo pericolo d’errori a cui sarebbero esposte le traduzioni, basterà rammemorare il messale tradotto in lingua francese nel 1660 da un certo Domenico Voisin. S’oppose lo zelo del clero gallicano mosso per appunto dagli inconvenienti di sopra indicati, e ricorse al sommo pontefice Alessandro VII che nell’anno 1661 lo condannò, né mancò l’autorità regia di adoprarsi acciocché l’ordine pontificio avesse la sua esecuzione. Tutta la storia coi documenti è riferita nel tom. 4 della Biblioteca dei critici sacri alla pag. 583 e seguenti, e nel tom. 3 dell’opera citata del P. Fontana alla pag. 916 e seguenti, e nel tom. 2 dell’opera citata del P. Bellelli.
Cfr. P. Lambertini, Annotazioni sopra il santo sacrifizio della Messa secondo l’ordine del Calendario Romano, Torino, Speirani e Tortone, 1856, pp. 61-62.