Klaus Gamber, «Actuosa participatio»

Nella Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II si trova un’espressione che è diventata criterio ispiratore delle attuali riforme in campo liturgico: la «actuosa participatio», la partecipazione attiva dei fedeli all’azione liturgica (n. 50,1). Un evidente riferimento in tal senso si trova in 1 Pt. 2,9: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Iddio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce».

Che cosa i Padri conciliari abbiano inteso con «actuosa participatio» viene spiegato poco sopra dalla Costituzione medesima (n. 48): «Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, mediante una comprensione piena dei riti e delle preghiere partecipino all’azione sacra consapevolmente, pienamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino a offrire sé stessi».

Tale esortazione era necessaria a fronte della prassi esistente nel rito latino, specialmente nei paesi latini: qui dal medioevo in poi i fedeli erano spesso solo muti spettatori del culto pubblico officiato dal clero (messa, liturgia delle ore) e potevano avere una partecipazione attiva esclusivamente nelle devozioni popolari, in primo luogo nella recita del rosario.

Ma oggi, specie in Germania e ancor più in Olanda e in Francia, si è caduti nell’eccesso opposto, in una troppo attiva partecipazione del «popolo di Dio» alla celebrazione della messa, nella quale taluni elementi che una volta sostenevano l’azione sacra, quale in primo luogo il coro, sono stati pressocché interamente eliminati.

In tale celebrazione stranamente fu preso come modello per l’«actuosa participatio» dei fedeli lo stile proprio delle vecchie funzioni extraliturgiche, ove il sacerdote comincia a recitare le preghiere, il popolo risponde e canta lodi sacre. E’ più o meno la stessa forma data negli anni trenta da Pius Parsch ai suoi uffici «liturgici popolari».

Oggi, dopo l’ntroduzione del nuovo rito, la situazione è particolarmente negativa nei paesi latini, ove il popolo non era abituato a prendere parte attiva alla liturgia, e di lodi sacre ve ne erano ben poche. Dato che solo di rado si hanno a disposizione lettori e cantoria, nel nuovo rito il celebrante deve assumersi anche i loro compiti. Così avviene che questi finisca per dire da solo quasi l’intero testo della messa, cioè le preghiere, le letture e i canti, e il più delle volte, per poter essere compreso nelle grandi chiese, lo fa al microfono, che si trova sia all’ambone sia all’altare.

Praticamente ci troviamo davanti a nient’altro che a una messa privata recitata ad alta voce e priva di ogni solennità, tanto più che i fedeli non partecipano alle risposte. Anche in Germania, in alcune comunità rurali, la situazione spesso non è molto migliore.

A questo punto è bene dedicare qualche parola agli impianti di amplificazione installati nelle chiese. Le orecchie dell’uomo moderno sono «inondate» quasi tutto il giorno di suoni, diffusi da qualche amplificatore. Provengono dalla radio, dalla televisione, dagli altoparlanti che sono nelle fabbriche, nei grandi magazzini, nelle stazioni, nelle manifestazioni di piazza.

Ora in chiesa l’amplificazione può anche servire, ma il suo impiego permanente in certo qual modo contribuisce alla massificazione dell’uomo. La parola pronunziata direttamente è comunque più naturale e quindi più efficace. Pertanto i microfoni dovrebbero essere adoperati solo quando è strettamente necessario. La vecchia «missa cantata» e i pulpiti, oggi non più in uso, nella maggior parte dei casi rendevano l’amplificazione non necessaria.

«Attori» della liturgia, come si è detto sopra, non sono solo il sacerdote e il popolo, ma anche il lettore, il coro (la schola), e possibilmente anche il diacono. Di ciò ci si renderà conto gettando uno sguardo a quanto avviene nella Chiesa orientale, ove tante cose risalenti alle origini cristiane si sono mantenute più fedelmente che non in occidente.

In essa, a partire dal IV secolo, è appunto il diacono a spingere il popolo all’«actuosa participatio» attraverso la recita di litanie e frequenti inviti alla preghiera.

E’ un errore sostenere che solennità e «actuosa participatio» si escludano a vicenda. Oggi chi frequenta il culto entra in chiesa provenendo dalla monotonia del quotidiano e porta con sé l’esigenza della solennità. Egli vuol fare l’esperienza del «numinosum», però desidera anche partecipare attivamente alla liturgia, e non solo «ascoltare la messa con devozione». Bisogna trovare il giusto mezzo tra la passività del passato e la partecipazione spesse volte eccessiva di oggi.

La solennità non è neppure necessariamente nemica della naturalezza. Al sud si possono vedere i piccoli andare in chiesa con i palloncini. Nessuno se ne scandalizza. Noi nordici nella casa di Dio siamo troppo rigidi. Dalle feste profane nei paesi mediterranei si può imparare come festeggia una comunità.

Nella liturgia dovrebbe esservi qualcosa dello splendore di una festa nuziale, lo splendore di una naturale solennità. Senza di questo l’«actuosa participatio» diviene un rigido regolamento. E niente falso pathos, che potrebbe allignare in una liturgia completamente recitata.

La Chiesa d’oriente non ha conosciuto né il gotico, con la sua accentuazione eccessiva della spiritualità privata nei confronti di quella comunitaria, né il barocco con il suo esagerato fasto. Per questa ragione in oriente non è mai esistita la messa privata, o comunque una funzione liturgica senza canto. Daltronde non esiste neppure la messa per orchestra come in occidente. Meno felice peraltro è il fatto che in oriente si fosse dato tanto rilievo al «tremendum mysterium», al punto da far andare quasi perduta in alcuni riti l’«actuosa participatio» del popolo.

Questo non vale però per i paesi slavi con la loro naturale religiosità popolare. Qui i fedeli, almeno nelle chiese dei villaggi, partecipavano ai canti più semplici (a più voci) del coro e dei cantori. In questi luoghi l’«actuosa participatio» è vieppiù favorita dal fatto che preghiere, letture e canti vi vengono eseguiti in una lingua che, pur essendo una lingua sacra, è ampiamente compresa anche dal popolo.

Nella Chiesa orientale il singolo fedele che frequenta la liturgia è libero di partecipare a suo modo all’azione sacra che viene compiuta in primo luogo dal clero. Nessuno si scandalizza se qualcuno entra in chiesa durante la celebrazione e accende candele davanti all’iconostasi o si prostra in umile preghiera davanti alle icone.

Una tale libertà, di cui proprio l’uomo moderno ha bisogno, nella liturgia latina non è quasi più garantita per effetto dell’eccessiva importanza data nel momento attuale all’«actuosa participatio». Quest’ultima pertanto viene non di rado rifiutata da molti fedeli, in quanto viene vista come mera esteriorità e come una forma di partecipazione eccessiva: essi si sentono completamente «alla mercé» del modo di impostare e di regolamentare la funzione da parte del celebrante di turno.

Un tempo la liturgia veniva celebrata in tutta la Chiesa secondo riti fissi e tradizionali, in cui una dignitosa esecuzione dava una certa garanzia di una celebrazione liturgicamente perfetta.

Ora in occidente l’eccessiva importanza attribuita all’«actuosa participatio» ha portato a cercare sempre nuove strade per ottenere questa partecipazione attiva dei fedeli. Appaiono necessari continui esperimenti per il semplice fatto che le innovazioni, che al principio fanno una certa impressione ai fedeli, come l’esperienza dimostra ben presto perdono di efficacia.

La stabilità appartiene alla natura del rito. Un rito non si forma spontaneamente, ma subisce uno sviluppo e solo alla fine, al pari di un buon vino, si «chiarifica». Soltanto così esso può soddisfare tutti coloro che vi partecipano, dall’accademico alla semplice vecchietta. Nella liturgia moderna si fa valere per lo più un solo tipo di gusto, quello del celebrante di turno.

Come si è mostrato, un rito non si può puramente e semplicemente creare. Esso si sviluppa lentamente nel corso dei secoli, durante in quali tiene conto delle rispettive circostanze. Ma neppure deve irrigidirsi nel rubricismo, come è avvenuto in occidente dopo il Concilio di Trento.

Sarebbe interessante dedicare uno studio specifico all’adattamento del rito alle circostanze del tempo, come pure alle ragioni del suo irrigidimento. Comunque oggi dobbiamo chiederci perché si è pervenuti a questo o quello sviluppo, e innanzi tutto alla forte accentuazione dell’elemento culturale, o ancora perché determinate forme di culto liturgico siano venute meno nel corso del tempo.

Talvolta ciò si è verificato contemporaneamente nella Chiesa d’occidente e in quella d’oriente, come per esempio l’abolizione della comunione nella mano.

Altrimenti corriamo il pericolo di non imparare nulla dalla storia. E vi è pure il pericolo che l’«actuosa participatio» non si dimostri così benefica come potrebbe essere presa in sé e per sé. In tutti i nuovi tentativi non si deve dimenticare questa sola cosa: culto è innanzi tutto servizio davanti a Dio, dunque azione sacra riferita a Lui.

La «actuosa participatio» non può essere una panacea per la pastorale. E’ perlomeno altrettanto importante una buona istruzione dei fedeli nella predicazione e nella catechesi.

Tuttavia essa, se rettamente intesa, potrebbe apportare grandi vantaggi pastorali e non da ultimo contribuire a emancipare i cristiani moderni.

Nota
Da «INSTAURARE» n° 1/93. Pubblichiamo in traduzione italiana, a cura di Fabio Marino, l’articolo dal titolo «Actuosa participatio» di Mons. Klaus Gamber, uscito originariamente nel 1971 e di recente riapparso nel volume Fragen in die Zeit. Kirche und Liturgie nach dem Vatikanum II (Regensburg 1989, 111-115). In questo volume l’A., appena prima della sua morte, avvenuta nel 1989, aveva raccolto profondamente rielaborati una serie di scritti sulla riforma liturgica e i suoi problemi. La partecipazione attiva dei fedeli viene spesso addotta come fondamento di innovazioni liturgiche tra le più spinte, tra cui per esempio l’altare obbligatoriamente rivolto verso il popolo. Gamber chiarisce qui il senso e l’ambito della «actuosa participatio» intesa dal Concilio, riportandolo nei limiti, accettabili, dati come sempre dalla tradizione, dalla prassi ecclesiastica fin dai tempi più antichi, dalle esigenze teologiche e dalle ragioni pastorali.

Cfr. «Notizie», 189, 1993, pp. 1-3.

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