Facendo riferimento all’editoriale «Per una riforma della Liturgia», a suo tempo pubblicato nel bollettino nazionale di Una Voce1, e alla prospettiva in esso affacciata di una «riforma delle riforme liturgiche», vorrei aggiungere le seguenti osservazioni.
E’ da mettere in chiaro innanzi tutto che un’eventuale «riforma delle riforme» dovrà restituire ai testi del messale, del rituale e del pontificale nonché al modo di celebrare la messa e di amministrare i sacramenti quella pienezza e chiarezza teologica che oggi è spesso carente. La riforma, infatti, fu basata sia sulla manìa archeologica per i riti dei primi secoli, prima, cioè, che in Occidente fossero arricchiti da elementi germanici e celtici nonché dal successivo approfondimento del dogma, sia su di un falso ecumenismo il quale tende a raggiungere una «unione» a tutti i costi col mondo protestante: ne è risultato, pertanto, un rito povero, spesso equivoco, ed un modo di celebrarlo che si ispira alla Riforma.
Poche furono le concessioni al mondo orientale, se non nella speciale, precisa invocazione allo Spirito Santo introdotta nei nuovi canoni e, forse, nell’uso di ricevere la comunione in piedi. La questione della lingua liturgica fu risolta, in apparenza, sia accostandosi alla tradizione orientale sia a quella protestante, poiché ambedue privilegiano l’uso delle lingue nazionali. A ben vedere, però, è stato lo spirito protestante a prevalere poiché in Oriente non è la lingua nazionale parlata che viene privilegiata nella liturgia ma la lingua nazionale nella sua forma arcaica od aulica intesa come lingua sacra: nella riforma liturgica invece il problema della lingua: è stato visto nell’ottica individualistica, antisacrale e livellatrice del protestantesimo, ispirandosi inoltre al dogma illuminista [13|14] della necessità della comprensione razionale di tutte le cose, persino di quelle che di per sé superano la ragione ma che se non rientrano in categorie razionali, limitative e pedisseque, per lo spirito illuminista neanche esistono!
Ciò detto non penso che la riforma potrà consistere in un ritorno puro e semplice alla liturgia cosiddetta «tridentina», che per ragioni religioso-culturali è bene che rimanga così come è con piena cittadinanza accanto agli altri riti della Chiesa Cattolica, ma dovrà, sulla base, anzitutto, di un completo e corretto messaggio teologico, tenere conto di alcuni dati scritturistici, storici e teologici.
Va anzitutto considerato il dato storico-teologico che proviene dalla lettera ai Romani di San Paolo (Romani 11, 16-27) ove l’Apostolo parla dell’innesto sul vecchio tronco dell’ebraismo dell’olivastro dei gentili, il quale continuerà a fiorire fino alla fine dei tempi quando (essendosi seccato l’albero innestato a causa della grande apostasia di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi, 2, 3) verrà reinnestato sul tronco il vecchio albero d’Israele rinverdito per la sua conversione, come nazione, al Cristianesimo: dalla conversione di Israele conseguirà, poi, la riconversione dei gentili.
Da questo dato biblico si rileva l’importanza del «punto d’innesto» finché dura l’adesione dei gentili al Cristianesimo, «punto d’innesto» che storicamente si identifica con la civiltà greco-latina, cioè col mondo romano. Consegue da ciò l’importanza che la tradizione romana (identificata con la tradizione greco-latina) ha per il Cristianesimo incarnatosi nel mondo, almeno finché durerà l’adesione dei gentili. In campo liturgico il «punto di innesto» si identifica con i riti cristiani sorti durante i primi secoli, nella parte occidentale dell’impero, sul fondamento della latinità influenzata dalla tradizione greca e nella parte orientale sull’ellenismo a sua volta permeato di elementi latini.
Con le cosiddette invasioni barbariche sorge in Occidente una nuova civiltà romano-germanica con forti apporti dal mondo celtico la quale costituisce la base prossima della cosiddetta civiltà occidentale, oggi comprendente l’Europa occidentale, Americhe, il Sud-Africa, l’Australia e la Nuova Zelanda. Tornando alla liturgia si può dire, ad esempio, che la messa cosiddetta «tridentina» è non solo il frutto dell’approfondimento del dogma in materia di presenza reale, di sacrificio propiziatorio e di sacerdozio ministeriale, ma anche il più bel frutto culturale della tradizione romano-germanica celtica, frutto venuto ad iniziale maturazione per opera di Alcuino e poi degli Ottoni, fra il nono e l’undicesimo secolo, e successivamente sviluppatosi attraverso il basso Medioevo fino a Pio V che lo cristallizzò definitivamente: con questa messa e con tutti i riti occidentali è intimamente connessa la lingua latina come lingua sacra della liturgia romano-germanica od occidentale.
Se per l’Occidente, in nome non solo della sua continuità culturale, la «riforma delle riforme» non dovrà troppo discostarsi dal modello «tridentino», ovverosia dalla liturgia precedente il 1965, e la lingua dovrà essere, almeno prevalentemente e in linea di principio quella latina (o comunque, in via subordinata, una lingua nazionale in versione aulica e perciò culturalmente valida), altro discorso deve farsi per le antiche civiltà dell’Asia e del Nord Africa nonché per l’Africa nera, la Papuasia e l’Oceania ove, salvo il «punto d’innesto» dei gentili (cioè, in campo liturgico, i riti sorti nei primi secoli nell’ambito dell’impero romano), lo ulteriore innesto dovrà farsi, nel rispetto della tradizione teologica, con le singole tradizioni o culture: eliminando perciò [14|15] completamente gli apporti germano-celtici nella liturgia i quali sono peculiari alla civiltà occidentale e non sono direttamente connessi col «punto d’innesto» dei gentili sull’albero dell’ebraismo. L’apporto delle singole tradizioni pagane potrà riflettersi nei colori liturgici, nella musica sacra, nei gesti, nei segni, nel calendario, nei riti aggiuntivi, nonché nella lingua che dovrà essere quella sacra delle singole civiltà o culture: l’unico punto fermo, ciò che nasce dall’antichità greco-romana e dalla radice ebraica ridotto all’essenziale.
Si avrà allora un fenomeno simile a quello avvenuto in Occidente fra i secoli nono ed undecimo ed in Oriente con le influenze semitiche, persiane, armene ed infine slave sulla originaria liturgia del mondo ellenistico-romano, e ciò su scala mondiale. Già i gesuiti del XVII secolo lo intuirono proponendo i cosiddetti riti cinesi, ma forse una delle ragioni del fallimento di quella iniziativa missionaria fu dovuto al fatto che i suoi autori la vedevano in un’ottica puramente pragmatica senza approfondirne i risvolti storico-biblici e senza la conoscenza che abbiamo oggi della storia della liturgia.
Stiamo oggi assistendo ad un tentativo assai simile a quello dei gesuiti seicenteschi; tentativo però attuato sulla base di riti dogmaticamente carenti e senza che ci sia alcun discernimento su ciò che nelle singole tradizioni pagane è compatibile o incompatibile con il messaggio cristiano: in altre parole si sta assistendo ad un processo di inculturazione selvaggia della liturgia che è estremamente pericoloso e che potrebbe essere evitato se alla base di tutto figurasse una saggia «riforma delle riforme», una conoscenza teologica, una coscienza storica, nonché una genuina e profonda conoscenza delle singole tradizioni pagane.
Neri Capponi
Firenze, 6 febbraio 1988, festa di San Paolo Miki e Compagni, primi martiri giapponesi.
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1 Cfr. Una Voce – Notiziario n. 79-80, gennaio-giugno 1987, pp. 1-3.
Cfr. «Una Voce Notiziario», 83-84, 1988, pp. 13-15.