L’Associazione UNA VOCE non intendeva pronunziarsi ulteriormente sulla traduzione vernacola del Canone della Messa: traduzione che essa considera, in se stessa, una aperta violazione della volontà del Concilio Ecumenico Vaticano II, oltre che (come ci consta) di quella della Commissione Liturgica Conciliare.
Ma, avendo potuto esaminare la traduzione italiana del Canone, di fronte al monumentale cumulo di errori che essa contiene, e che vanno ben al di là del fatto filologico (il quale, trattandosi di materia sacra per eccellenza, sarebbe già gravissimo) sente l’obbligo, dinanzi a Dio e ai fedeli, di denunciare i pericoli che
tale proclamazione in vernacolo comporta.
A un esame accurato il Canone italiano appare da un capo all’altro sparso di arbitrî e rivela un’inconcepibile ignoranza del latino liturgico, così come della portata teologica e del significato tecnico dei termini. Cosa singolare, questa ignoranza e imprecisione sembrano concentrarsi più dense proprio su tutti
quei punti dove l’ambiguità terminologica può insinuare il dubbio dogmatico o dottrinale.
Non abbiamo lo spazio per elencare tutti gli errori, che assommano, in un testo di poco più di 100 righe, a una cinquantina almeno. Vogliamo però citarne alcuni, certi che i fedeli più attenti saranno immediatamente scorgerne la gravità.
Nel Communicantes la Santa Vergine Deipara non è più «Madre di Dio», ma «Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo»; errore di traduzione le cui implicazioni non hanno, ci sembra, bisogno di commento, anche per chi
non conosca la solenne definizione di Madre di Dio (Theotòkos) data dal Concilio di Efeso e l’eresia nestoriana che avrebbe voluto invece la definizione: Madre di Cristo (Chistotòkos). La speranza della salvezza eterna (spes salutis),
virtù teologale del Cristiano che cammina verso Dio «con timore e tremore», è divenuta la piatta, carnale, assurdamente garantita «sicurezza di vita e salute». Il luogo di refrigerio, di luce e di pace (locus refrigerii, lucis et pacis), invocato
per le anime dei trapassati, non è più un luogo, ma un semplice stato («concedi la beatitudine, la luce e la pace»), ciò che contrasta con tutta la teologia del Purgatorio e del Paradiso. La Chiesa non è più la santa Chiesa cattolica (Ecclesia tua sancta catholica), ma la Chiesa «santa e cattolica», i due attributi ben separati, quindi non più strettamente interdipendenti. Nella preghiera per questa Chiesa (pacificare, custodire, adunare et regere digneris), vi è un’inspiegabile inversione di termini, per cui si viene a pregare Dio di proteggere e governare, di dar pace alla Chiesa e di «raccoglierla nell’unità
con il tuo servo il nostro Papa»: dove il divino mandato del Pontefice appare ridotto alla mera funzione di raccogliere la Chiesa, mettendo in ombra il regere che, chiudendo il crescendo, chiaramente significava il governo immediato
del Papa su tutta la Chiesa. Quella interpretazione della «collegialità» che fu bocciata in Concilio, si riaffaccia dunque nel Canone?
I servi e le serve del Signore, divenuti semplicemente «fedeli» o addirittura «ministri», (allo stesso titolo, s’intende, del sacerdote!) non sono più noti a Lui per la loro fede e la loro pietà (quorum tibi fides cognita est et nota devotio), ma come «fedeli nel servizio», espressione di sapore squisitamente protestante. Dio
non è più placatus dall’offerta della Vittima, ma semplicemente «benevolo», il che snatura il carattere espiatorio e propiziatorio del Sacrificio. La parte implorata dai fedeli nella società dei Santi (pars et societas) è divenuta,
ovviamente, parte in una «comunità». La sacra Oblazione non si chiede più che sia a noi (nobis fiat) Corpo e Sangue di Cristo, ma si chiede che lo diventi per noi: per noi soli, dunque?
E tutto questo non è che un volo d’uccello sulla selva di approssimazioni, omissioni, mutilazioni, parafrasi che costellano questa squallida, miseranda versione anonima di una preghiera che non ha l’eguale in Occidente per altezza, splendore, antichità, e a cui Santi Pontefici, Dottori della Chiesa, come Leone e
Gregorio Magno, osarono appena, dopo preghiere e digiuni, aggiungere qualche parola.
Ma ciò che più terribilmente allarma e che è nostro dovere denunciare senza riguardi, perché mette in gioco la stessa validità della Messa, è la traduzione delle parole della Consacrazione. Tutto è stato alterato in queste formule divine: i tempi dei verbi, che da participî sono diventati perfetti (accipiens … agens … dicens … tradotti: prese, rese grazie, disse) il che toglie al testo tutta la sua forza di attualità, riducendolo ad un puro recitativo, il più storico e didascalico possibile; i modi stessi dell’atto con il quale Gesù istituì il Sacramento dell’Eucaristia, poiché, secondo questa traduzione, egli non «benedisse» il pane con un gesto preciso (che è ben lecito ritenere di trasmissione apostolica se da quasi duemila anni lo si ripete fedelmente in tutte le Liturgie d’Occidente e d’Oriente) ma semplicemente «rese grazie con la preghiera di benedizione», formula che è una pura ipotesi esegetica. Lo stesso cuore vivente della nostra
religione, la formula della Transustanziazione, è stata manipolata in modo inaudito. Il Signore, dando il Pane spezzato agli Apostoli, disse, secondo il testo latino al quale si proclama di esser rimasti integralmente fedeli: «Prendete, e
mangiatene tutti (punto). In verità (enim) questo è il mio Corpo»: affermazione solennissima della Transustanziazione. La traduzione porta: «Prendete, e mangiatene tutti (virgola), poiché questo è il mio corpo»: che può essere affermazione puramente simbolica. E alla consacrazione del vino, là dove Cristo aveva detto, prendendo il calice e dandolo agli Apostoli: «Prendete, e bevetene tutti. In verità (enim) questo è il calice del mio Sangue, del nuovo ed eterno testamento (due punti): mistero di fede: per voi e per i molti (pro multis) sarà sparso (effundetur) in remissione dei peccati», la traduzione porta, scandalosamente: «Prendete, e bevetene tutti, poiché questo è il calice del mio
sangue, per la nuova ed eterna alleanza (virgola), mistero della fede: è il sangue sparso per voi e per tutti in remissione dei peccati».
Qui tutto il senso del discorso divino è stravolto: il calice non è più quello della nuova ed eterna alleanza, che in quel calice si compie, ma è solo per essa, puro strumento; il mistero non appare più quello del Sangue, ma quello dell’alleanza; e non è più di fede ma della fede, quasi che la fede non avesse altro mistero. E, soprattutto, il Sangue non è più quello che sarà sparso (ora, sull’altare come sul Calvario, realmente, sostanzialmente) ma è il sangue «sparso per voi»: una volta, duemila anni fa, e di cui dunque qui si fa semplicemente memoria. E questo sangue, contrariamente all’affermazione del Signore stesso, non sarà
sparso per i molti ma (fu) parso per tutti, il che sembra voler contraddire a tutta la dottrina della predestinazione, della grazia e del libero arbitrio.
Il dubbio così massicciamente insinuato si conferma alla fine del Supplices, dove il quotquot ex hac altaris participatione sacrosanctum Filii tui Corpus et Sanguinem sumpserimus (quanti di noi, partecipando di questo altare, riceveremo il sacrosanto Corpo e Sangue del tuo Figliuolo), diventa, con una sorta di indulgenza plenaria collettiva: tutti noi che partecipiamo (in grazia di Dio o no – giacché qualcuno ha osato affermare che non c’è Messa senza la comunione di tutta l’assemblea!) di questo altare: ma non già ricevendo il Corpo
e il Sangue, bensì – teosoficamente – «comunicando al mistero del corpo e del sangue» (ostinatamente minuscoli, non più sacrosanti).
Sarà per una serie di inesplicabili coincidenze, ma non v’è dubbio che attraverso la incompetenza dei traduttori, in queste brevi formule, che sono state e sono la vita stessa del Cristiano, si sono insinuate, per non dire svelate, proprio le due precise tendenze dell’eresia contemporanea: la tesi che la Messa non sia l’attuale
Sacrificio della Croce ma soltanto il memoriale di esso, e la presunzione che la salvezza attenda tutti indistintamente, al punto Omega di Teilhard de Chardin: la «cristificazione universale».
Come già dicemmo a proposito della traduzione francese, della quale l’italiana non è che un’imitazione peggiorata, il Concilio di Trento (dogmatico, quindi infallibile) stabilisce, al Canone 6° della sessione XXII: «Se alcuno dirà che il Canone della Messa contiene errori … sia scomunicato». Le modifiche introdotte nel Canone italiano sono di tale portata da far pensare che ai traduttori il Canone latino apparisse in molti punti erroneo… Per noi, comunque, gli errori li contiene ora, tradotto. E se, nel Canone latino, l’omissione della minima particella nelle formule della Consacrazione poteva rendere invalida la Messa (secondo l’opinione dei maggiori teologi, mai smentita dalla Sede Apostolica), che cosa dobbiamo pensare delle stesse formule, ora che contengono, esse sole, non meno di sei capitali alterazioni?
Pertanto, e riservandoci di riesaminare il documento parola per parola in altra pubblicazione, dichiariamo essere per noi questo Canone in lingua italiana inaccettabile: e che forti sono i nostri dubbi, confermati da quelli di teologi da noi interpellati, almeno sulla liceità, in queste condizioni, della celebrazione del Santo Sacrificio.
Dobbiamo presumere che alla Conferenza Episcopale Italiana la maggioranza dei nostri Vescovi, che sappiamo colti e pii, siano stati sorpresi, forse per mancanza di tempo o di esatta informazione, nella loro buona fede. D’altra parte i risultati della votazione sopra il testo italiano del Canone mostrarono una divisione di opinioni notevolissima, con ben 99 voti negativi (contro 196) sui quali 25 astensioni dal giudizio, evidentemente per mancanza di tempo per lo studio del testo italiano. Non si spiegherebbe altrimenti la pioggia di proteste che, secondo informazioni che abbiamo ogni ragione di ritenere esatte, si sta accumulando presso la Santa Sede da parte di moltissimi Presuli.
Preghiamo Dio che i nostri sacerdoti vogliano, come d’altronde possono tuta coscientia, tenersi fedeli al testo latino1, che è il testo perfettamente sicuro per chiunque – prete o laico – voglia restare nella dottrina irreformabile della Chiesa Cattolica.
Roma, Festa di S. Giuseppe 1968
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1 Su questa inalienabile facoltà, secondo lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, persino il P. Bugnini sembra non aver dubbi: «Il latino – egli scrive a proposito del Canone in italiano – non è per nulla abolito. Resta di diritto e di fatto. La celebrazione senza popolo (“privata”) sarà in latino; certe messe con il popolo saranno in latino, anche perché la Costituzione Conciliare e le istruzioni della Sacra Congregazione dei Riti raccomandano che i fedeli sappiano cantare o dire in latino le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi» (L’Avvenire d’Italia, 23 marzo 1968). E, nella presentazione del Graduale Simplex: «Resta valida e vitale la possibilità … di celebrare la Messa letta, cantata, solenne, pontificale, tutta in latino, o tutta in volgare» (Osservatore Romano, 4 ottobre 1967).
Cfr. «Una Voce», 2, aprile-maggio 1968, pp. 1-4 (ora in «Una Voce Notiziario», 83-85, 2021-2022, pp. 10-12).
Postfazione
La battaglia dell’associazione Una Voce Italia per la difesa della liturgia romana era iniziata ben prima della Riforma liturgica di Paolo VI. La «Dichiarazione di UNA VOCE sulla traduzione italiana del Canone» qui riprodotta, datata 19 marzo 1968 e pubblicata nel notiziario «Una Voce» del maggio 1968 è una presa di posizione ufficiale dell’Associazione dopo aver esaminato il testo della traduzione vernacola del Canone della Messa. L’esame fu condotto presumibilmente dal gruppo di studio facente capo a mons. Renato Pozzi, officiale della Curia Romana e profondo conoscitore del latino classico, ecclesiastico e liturgico (cfr. «Una Voce Notiziario», 76-79 ns, 2020, p. 2). Da osservare come la maggior parte delle problematiche indicate siano rimaste nella traduzione italiana della Preghiera eucaristica I del Messale Romano riformato oggi in uso.