Con la lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 1994, san Giovanni Paolo II ha definito dogmaticamente che il carattere sacerdotale può essere validamente ricevuto soltanto dal battezzato maschio.
Il testo, facendo riferimento al sacerdozio, non dirime la questione dell’accesso delle donne al diaconato; per quanto, infatti, sia tradizionale dividere gli ordini maggiori in diaconato, presbiterato ed episcopato, soltanto agli ultimi due è applicata l’espressione classica di sacerdozio, confermata del resto anche nell’etimo dalla facultas sacrificandi pro vivis et pro mortuis, che individua il potere caratteristico della concezione cattolica del sacerdozio. La questione è stata dibattuta soprattutto negli ordini religiosi femminili di ambiente germanico e anglosassone, più prossimi a realtà protestanti ove esistono le figure di pastora e diacona.
Sembra interessante uno sguardo alla disciplina delle azioni cultuali pubbliche compiute da donne nella chiesa dei primi secoli, per la quale si hanno fonti soprattutto in Oriente.
Il problema è diverso e più risalente di quello connesso alla giurisdizione canonica che, in varie epoche, è stata esercitata da laici, e quindi anche da donne.
La disciplina di tali azioni pubbliche, nel santuario, è di rilevante interesse perché in esse si ritrova la concreta espressione dei principi cristiani sul ministero ordinato e le donne.
Tiene il campo la figura della diaconessa, alla quale si ricollegano anche funzioni proprie degli ordini minori.
San Paolo costituisce la premessa remota del problema. Nella lettera ai Romani, dice l’Apostolo [1], Phoiben ten adelphén hemón, ousan kai diákonon tes ekklesias. In ragione della completa assenza di disposizioni normative, che impedisce di collocarlo in un quadro di riferimento, il passo ha per noi il solo valore della testimonianza storica, ponendo il problema fin dall’età apostolica.
Ai fini che qui rilevano l’espressione ministero ordinato, nella presente esposizione, è preferita a quella di sacerdozio, e non solo per quanto accennato sopra. Varie ragioni militano in questo senso. Innanzi tutto, l’ambito della trattazione, che verterà sulla disciplina di alcuni fenomeni discussi ma che non hanno mai riguardato il sacerdozio come sopra definito, vale a dire il presbiterato e l’episcopato; i termini in cui ci imbattiamo sono diaconessa e ministra, e le funzioni svolte non consistono nella celebrazione del santo sacrificio.
Secondariamente, è opportuno considerare la modifica del linguaggio ecclesiologico, seguita soprattutto al Concilio Vaticano Secondo, per la quale si parla di un sacerdozio comune a tutti i battezzati [2]. In tal modo, si è recuperato, almeno dottrinalmente, il senso della consacrazione battesimale, assai vivo nei tempi apostolici e della prima cristianità; si è reso però necessario individuare quella diversa sacerdotalità che caratterizza il clero e lo distingue dai laici.
Il termine ministero ordinato, senza tralasciare il pensiero cattolico in materia (riferimento all’ordine in senso sacramentale e giurisdizionale) sottolinea la complementarità ed il servizio reso al laicato da quella altra e distinta porzione (clerus) del popolo di Dio.
Nell’antica chiesa di Nitria, comunità monastica dell’Egitto, un gruppo numeroso di monaci, circa seicento per Palladio, si riuniva soltanto il sabato e la domenica in occasione della divina liturgia. In quella comunità vi erano otto sacerdoti, ieromonaci, ma di essi solo ho protos celebrava, benediceva, predicava; gli altri sacerdoti si mantenevano in silenzio [3].
Il brano sulla vita dei monaci di Egitto più di altri sottolinea il senso della ministerialità; in quella comunità, molti, in astratto, avevano i poteri sacramentali, ma solo il priore, il più anziano, in supplenza del vescovo distante, li esercitava ed attraverso quel solo la chiesa di Nitria riceveva il necessario.
Tale buon ordine nell’esercizio del sacramento non era ignoto in Occidente ma ebbe modo di perdurare più a lungo in Oriente [4].
In tale spirito devono essere lette le testimonianze su alcune azioni sacre affidate alle donne; se si avrà presente questo senso di funzione del corpo mistico si troverà anche la retta lettura di alcune supplenze.
Nel 1800 a Wiesbaden nasceva Teodoro Fliedner; uomo caritatevole, occupò la sua vita nella realizzazione di opere di assistenza ai poveri ed in altre di assistenza ed elevazione spirituale; fu pastore della chiesa evangelica di Vestfalia.
La sua persona non avrebbe per noi alcun interesse se egli non avesse fondato nel 1836 l’Ordine delle Diaconesse della Vestfalia Renana, associazione di donne che conducevano vita comune e si dedicavano all’attività caritativa.
È infatti con quel protestante che il nome diaconessa, perso in alcune rubriche del Pontificale Romano [4 bis], ricompare nella vita ecclesiastica moderna; l’ordine ebbe discreta fortuna, si diffuse nelle chiese luterane tedesca e scandinave, che peraltro non tutte conservavano più il diaconato maschile, e tuttora persiste.
Appare fondata l’impressione che l’attuale questione degli ordini sacri femminili abbia origine, o meglio tragga ispirazione, come si è detto in apertura, dalla prassi attuale di confessioni riformate od evangeliche, in cui le donne ricoprono l’ufficio di pastore.
Ora, la premessa storica all’introduzione delle donne in tale ministero è stata l’esistenza delle diaconesse che si erano affiancate ai pastori, non solo nelle attività di assistenza ai poveri, ma anche nei compiti di insegnamento.
La dottrina protestante sul ministero esclude l’esistenza di un clero ordinato per il sacrificio, distinto essenzialmente dai battezzati non chierici; per tale pensiero, i pastori sono semplici predicatori e dottori, anche se la posizione di Lutero al riguardo non è univoca [5]. Nel momento in cui le remore sociali ad affidare tali uffici alle donne sono cadute, esse li hanno pretesi ed ottenuti; si tratta tuttavia, fra i protestanti, della conseguenza logica di una premessa posta secoli or sono.
L’indeterminatezza disciplinare del breve accenno di san Paolo alla diacona Febe è autorevole ma ininfluente. Vengono invece in considerazione alcune fonti in cui si tratta di ministeri esercitati da donne come diaconesse. È, in verità, più facile seguire la disciplina delle diaconesse che di altre donne incaricate di servizi analoghi a quelli svolte dagli ordini minori; la ragione di ciò sta sia nella diversità di quegli ordini fra Oriente ed Occidente, ed anche da provincia a provincia dell’Oriente [6], sia nell’indeterminatezza delle loro funzioni.
Come osservazione generale si può dire che tali compiti, specie nell’ambito liturgico, si svilupparono presso le comunità religiose femminili, in questo eredi di quei veri ordines della prima cristianità che furono viduae e virgines [7].
Devono essere prese in considerazione le Costituzioni Apostoliche, il canone 19 del Concilio di Nicea, il canone 15 del Concilio di Calcedonia [8].
Preziosa appare una testimonianza di Epifanio, nel trattato Adversus haereses, che si esprime con grande chiarezza [9].
Due fonti latine meritano un cenno preliminare.
Un’interessante testimonianza esterna è offerta da Plinio il Giovane intorno all’esistenza del ministero femminile. Nel suo epistolario [10], il governatore romano riferisce: quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Le due ministre sembravano, perciò, al pagano abbastanza autorevoli nella comunità cristiana da poter costituire fonte attendibile sulla vita della comunità stessa.
Un’altra fonte è la costituzione Sacratas, attribuita a papa Sotero (165-174) ma probabilmente più tarda, perché vi ricorre il termine diaconessa, di uso comune in Occidente solo dopo il quarto secolo. La costituzione fa divieto alle donne consacrate, appunto sacratas, di trattare i vasi sacri e di incensare [11].
Nell’antica raccolta di canoni nota come Costituzioni Apostoliche, si trovano testimonianze contraddittorie circa la natura del diaconato femminile. La raccolta si presenta come parte dei canoni ecclesiastici dettati dagli apostoli; il testo della preghiera di ordinazione delle diaconesse (ai diakonoi) è attribuito a san Bartolomeo e ricorda molto le preghiere di ordinazione per il conferimento degli ordini maggiori, senza traditio instrumentorum ma solo coll’imposizione delle mani da parte del vescovo [12]. Nelle stessa raccolta, in altra parte, si vieta alle diaconesse ed ai ministri minori di distribuire la comunione [13].
In un’altra raccolta di canoni, estesa probabilmente nel quinto secolo, il Testamentum domini nostri Iesu Christi, si legge che, come i diaconi portano la comunione agli uomini malati, così le diaconesse devono portare la comunione alle donne malate. Viene però stabilito che le diaconesse comunichino con il popolo mentre la precedenza sui lettori è accordata alle vedove [14].
Si può ritenere che, in età più avanzata, i due collegi delle vedove e delle diaconesse siano divenuti uno solo, con relativa fusione dei rispettivi originari diritti e di doveri.
Il concilio di Nicea del 325 tratta delle diaconesse al canone 19, e sotto un particolare profilo: riammettere alle funzioni il clero paulianista [15] che avesse abiurato l’eresia. Il concilio afferma che, poiché le diaconesse paulianiste non avevano ricevuto l’imposizione delle mani, esse devono considerarsi laiche.
Il concilio di Calcedonia del 451 interviene per mutare la disposizione apostolica che richiedeva l’età di 60 anni per iscrivere una donna onorata fra le vedove; in forza del canone 15, basteranno quaranta anni per iscrivere una donna fra le diaconesse, ma dovrà precedere un serio esame.
Entrambi i concili potrebbero sembrare riconoscere al diaconato femminile i tratti di ordine sacro; l’espressione cheirotonia, che designa l’imposizione della mani, invero, significa in origine l’elezione del candidato (il termine originario è cheirotesia).
Sant’Epifanio fu vescovo di Salamina dal 367 al 403 e scrittore prolifico di opere apologetiche e polemiche.
Nel suo Panarion adversus omnes haereses, sant’Epifanio ha premura di precisare il significato dell’ordine delle diaconesse secondo l’interpretazione corretta: “… quanto all’ordine delle diaconesse, se esso esiste nella chiesa non è tuttavia costituito per l’azione sacerdotale né alcun ufficio del genere, ma in ragione della verecondia del genere femminile, sia per aiutare nell’amministrazione del battesimo sia per visitare le donne che soffrano di qualche malattia o abbiano subito qualche violenza sia intervenendo ogni volta che bisogna scoprire i corpi di altre donne” [16].
Si tratta di una testimonianze estremamente chiara e teologicamente consapevole e sembra pertanto sciogliere il problema.
Possediamo qualche memoria anche delle diaconesse nella chiesa giacobita e in quella nestoriana. Il rilievo è interessante perché in tali comunità l’istituzione si è mantenuta molto a lungo.
Il canone secondo del sinodo di Dârîn (676 d. C.) dispone: “la diaconessa unga d’olio santo le donne che sono battezzate in età adulta e compia per loro tutti riti del battesimo nelle cose in cui il pudore lo esige” [17]. Merita di essere sottolineata la conformità delle ragioni addotte da sant’Epifanio con la disposizione siriana ora ricordata.
Sempre del settimo secolo sono le disposizioni di Giovanni Bar Cursus, vescovo di Telle; la consacrazione diaconale è data alle superiore religiose che possono offrire l’incenso nel santuario, ma non cantare l’orazione relativa; possono anche prendere cura dei vasi sacri e dei ceri ma non dell’altare del sacrificio; infine, hanno diritto di versare acqua e vino nel calice. Queste funzioni le avvicinano agli accoliti latini, ma altri compiti le collegano alle diaconesse ricordate dei primi tempi: possono infatti distribuire la comunione ai bambini fino ai cinque anni e si prendono cura delle donne malate e bisognose. Per dirla con Giacomo di Edessa, sono diaconesse non dell’altare ma delle donne malate [18].
Dal ceppo antiocheno si è evoluta la liturgia in uso dai Maroniti. Per quanto qui li riguarda, va ricordato il sinodo del monte Libano del 1736 che autorizzò i vescovi a consacrare diaconesse nei monasteri dove loro sembrasse necessario, con compiti non dissimili da quelli attribuiti alle superiore religiose nestoriane [19]. Ancora nel 1599, il rituale nestoriano per Persia e Caldea del metropolita Giuseppe riporta il rito di benedizione delle diaconesse.
L’esame di pochi elementi normativi, spesso assai remoti, non permette conclusioni di tipo generale; sono però interessanti le consuetudini liturgiche osservate nei monasteri femminili in Oriente, in continuità con di ordines di donne alla preghiera pubblica della Chiesa.
Volendo per un momento rivolgersi al campo dell’esercizio di poteri giurisdizionale, la chiesa latina offre esempi anche più vistosi; la giurisdizione piena, esente ed immediata della badessa di Las Huelgas sui cappellani dell’ospedale del Re; la giurisdizione della badessa di Conversano, su popolo e clero di Castellana; la giurisdizione della badessa di S. Giulia di Brescia che conferiva direttamente il chiericato ed i benefici del territorio del monastero [20].
Sul piano strettamente liturgico, rammentiamo la particolare benedizione delle badesse [21] e la stola diaconale con mitria e pastorale privilegio della badessa di Las Puelsas in Portogallo, il diritto delle monache certosine di usare stola diaconale e manipolo nell’ufficiatura in cui ricorre il canto del vangelo.
Rimane, però, sempre evidente che tali azioni e tali segni sono ammessi per una supplenza, anche generale ed istituzionale (come si verifica nei monasteri di clausura) che in tanto ha senso in quanto l’esercizio naturale di quelle azioni è conseguenza propria o corollario del ministero ordinato. La loro riconosciuta eccezionalità può anzi costituire un argumentum a contrario nei confronti di chi voglia vedere in tali usi e discipline la memoria di antiche ordinazioni femminili al diaconato, propriamente intese.
Riccardo Turrini Vita
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[1] Romani, 16, 1 (trad. “Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa”).
[2] Lumen Gentium, n. 10.
[3] Palladio, Storia Lausiaca, VII, in PG, 34, 1020 d; scrive Palladio: októ de eisin presbýteroi aphegoúmenoi tautes tes ekklesias; en he(i), mechris ou ze ho protos presbýteros, oude eis ton allon ou prospherei, ou dikazei, ouch homiléi, all’en hesuchia(i) autó(i) synkathézontai monon (trad. “Otto sono i presbiteri preposti a questa chiesa; finché è in vita il primo presbitero, nessun altro celebra l’eucaristia o predica o giudica, ma tutti lo assistono in silenzio restando seduti”). La testimonianza è interessante anche per la comprensione dell’istituto della concelebrazione nella chiesa antica, molto diversa da come oggi viene normalmente praticata.
[4] P. DELATTE, Commentario alla regola di san Benedetto, Bergamo, 1951, capitolo LX 4, concedatur ei tamen post abbatem stare et benedicere aut missas tenere, si tamen iusserit ei abbas.
[4 bis] Cfr. Pontificale Romanum, De benedictione et consecratione Virginum: Et quia in nonnullis Monasteriis est consuetudo, quod loco Diaconissatus, Virginibus consecratis datur facultas incipiendi horas Canonicas, et legendi Officium in Ecclesia, Pontifex stans ante altare sine mitra, Virginibus consecratis coram eo genuflexis, dicit: …
[5] Cfr. H. LIEBERG, Amt und Ordination bei Luther und Melanchton, Gottinga, 1962, 207-213.
[6] Ad esempio, gli accoliti, presenti in Occidente col nome sequentes, erano noti solo agli Armeni; il salmista era un ordine in Oriente ma non in Occidente; si veda W. M. PLOCHL, Storia del diritto canonico, I, Roma, 1963, 62 seguenti.
[7] Si veda il Messale Romano, nell’orazione universale del venerdì santo, ove sono ricordate di seguito agli ordini minori: Oremus et pro omnibus episcopis … ostiariis, confessoribus, virginibus, viduis.
[8] Rispettivamente in M. METZGER, Les constitutions apostoliques, VIII 19-20, Sources Chrétiennes n. 336, Paris, 1987, tomo III, 220-223; Ch. J. HEFELE, Histoire des Conciles, I, 1, Paris, 1907, 615; ivi, II, 2, 1908, 803.
[9] Sant’Epifanio, Adversus haereses, 79, 3, in PG, 42, 744 d.
[10] Plinio il Giovane, Epistole 10, 96, 8.
[11] Corpus Iuris Canonici, I, Colonia, 1717, 77-78, Decretum Gratiani, D. 23, C, XXV, Sotero Papa epistola seconda a tutti i vescovi d’Italia, Sacratas.
[12] PIO XII, costituzione apostolica Sacramentum Ordinis, in AAS 1948, 5.
[13] Costituzioni Apostoliche, cit. VIII 28, 6.
[14] E. RAHMAN, Testamentum domini nostri Iesu Christi, Magonza, 1899, 2, 20, p. 142 e 1, 23, p. 46.
[15] L’eresia paulianista non va confusa con il paulicianesimo. di origine armena e sorto intorno al settimo secolo; in cosa il paulianismo di distingua dall’arianesimo e dal melezianesimo (quest’ultimo di origine piuttosto disciplinare) non è chiaro.
[16] Sant’Epifanio, Adversus haereses, in PG 42, 744 d: Kai hoti men diakonissón tagma estin eis ten Ekklesian, all’ouchí eis ton hierateuein, oudé ti epicheireín epitrepein, héneken de semnótetos tou ginaikeiou genous, e di’horan loutroú, e episkepseos pathous, e ponou, kai hote gymnotheie soma gynaiou.
[17] J. B. CHABOT, Synodicon Orientale, Parigi, 1902, 486.
[18] È opportuno rammentare che, nelle chiese d’Oriente, i battezzati per lo più, comunicano da quando possono deglutire le sacre specie; che la preparazione del calice si fa prima della messa; che accanto al turibolo classico esiste un turibolo laicale detto dai Greci cassion usato anche privatamente dai fedeli.
[19] J. M. FORD-T. J. RILEY, Deaconess, in New Catholic Encyclopedia, IV², Washington, 1966, s.h.v.
[20] A. PANTONI, Abbadessa, in Dizionario degli istituti di perfezione, I, Milano, 1974, s.h.v., e soprattutto M. von FÜRSTENBERG, Ordinaria loci oder Monstrum Westphaliae? Zur kirchlichen Rechtsstellung der Äbitissin von Herford im europäischen Vergleich, Paderborn, 1995.
[21] C. VOGEL-R. ELZE, Le Pontifical romano-germanique du dixième siècle, Città del Vaticano, 1963.
Cfr. «Una Voce Notiziario», 1 ns (2001), pp. 3-6; le note sono state riviste e integrate.