Notizia recentissima è che il Papa di Roma ha, con motu proprio datato 30 settembre 2019, festa di san Girolamo (autore della più nota versione della Sacra Scrittura in latino), istituito la «festa della Parola di Dio», fissata alla III domenica del «tempo ordinario» (vale a dire, la III domenica dopo l’Epifania). Ora, dal lungo documento, che cita ampiamente la costituzione Dei Verbum del Vaticano II, non si evince con chiarezza se tale «festa» sia da intendersi come una “giornata” (ovvero un giorno particolarmente dedicato a un concetto, in cui si spiega questo nella predica e si compiono delle attività correlate, es. l’ordinazione dei lettori; ne esistono già tante, dalla giornata dell’evangelizzazione a quella del migrante, alcune delle quali istituite già da Pio XI e Pio XII), oppure di una vera e propria “festa liturgica”, con testi propri. Soprattutto in questo secondo caso, è certo però che la cosa presenta numerosi punti problematici.
La prima problematica è data dalle intenzioni ecumeniche esplicitamente citate nel motu proprio, in quanto tale «festa» aiuterebbe a «rafforzare i legami con gli ebrei» e «per l’unità dei cristiani» (implicitamente, il riferimento è chiaramente al protestantesimo) (1). Il presupposto è erroneo sotto più punti di vista, in modo particolarmente evidente quando parla dei giudei, perché presuppone che la loro religione abbia il medesimo testo sacro. In realtà, tra la Bibbia Cristiana e quella giudaica intercorrono notevoli differenze, non solo (macroscopicamente) a livello esegetico (e va ricordato che il Talmud, la raccolta degli autorevoli commenti interpretativi dei rabbini al testo sacro, è dai Giudei considerata come componente integrante e insolubile del testo stesso), ma anche a livello testuale: il testo giudaico della Bibbia, come si presenta attualmente, è frutto di una violenta revisione effettuata attorno al IX secolo e volta a eliminare gran parte dei riferimenti cristologici dell’Antico Testamento; un errore concettuale molto grave da parte dei compilatori delle nuove edizioni della Bibbia in lingue moderne è rifarsi spesso e volentieri a quei testi, anziché alla versione greca dei Settanta che rappresenta fedelmente il testo usato dai primi Cristiani. Questo, ovviamente, senza considerare il fatto che l’Antico Testamento per il giudeo è un testo univoco, mentre per il Cristiano ha senso solo se letto alla luce del Nuovo Testamento, e particolarmente dei quattro Vangeli, massima espressione della «Parola di Dio». Dunque un’attenta lettura dell’autentica Parola di Dio porta alla luce differenze più che vicinanze con il giudaismo e le altre religioni.
Per quanto riguarda i rapporti con gli altri cristiani, la frase del motu proprio «celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida» parte da presupposti chiaramente ecumenisti, perché tutti (gli ortodossi al pari degli eretici) dovrebbero camminare verso un’unica direzione, guidati dalla Parola. Ma questo è profondamente sbagliato, perché varrebbe a significare che nell’ortodossia non v’è tutta la Verità, ma parte di essa è nell’eresia. E ciò è logicamente impossibile.
Questa prima problematica è stata notata da tutto l’ambiente «tradizionalista», in quanto rispondente ai consueti argomenti della sua polemica, magari aggiungendovi il fatto che «l’aumento d’importanza della Parola potrebbe andare a discredito dell’Eucaristia». Ben pochi hanno però notato la seconda, che è una problematica molto radicata nel costume cattolico, tant’è vero che i tradizionalisti stessi la avallano e la difendono. Essa riguarda la concezione che la tradizione liturgica cristiana ha di “festa”.
Nel Cristianesimo, ogni giorno è una “festa” in un certo senso; da un punto di vista strettamente liturgico la “festa” indica invece la celebrazione del transito (cioè della nascita al cielo) di un santo, oppure di importanti misteri della vita del Signore, o della Sua Genitrice. In questi termini tradizionali, la domenica non è una “festa” propriamente detta, ma è un “giorno”, sicuramente il caput di tutta la settimana. Questo concetto, lampante nella disposizione liturgica tradizionale delle domeniche, è ampiamente frainteso già dagli anni ’50, quando nei vari riordini del Messale Romano la domenica inizia ad essere etichettata come «festa del Signore», con una serie di conseguenze pratiche nell’atto liturgico che, sotto il pretesto di «salvaguardare le domeniche», finivano per sminuirle e farne sparire del tutto un numero considerevole (2).
Un’ulteriore e più grave anomalia tuttavia già da alcuni secoli si verifica con l’introduzione delle «feste di idea o di astrazione» (3), come le denomina, con non troppo velata intenzione critica, il grande liturgista mons. Léon Gromier. Se ne veda ora perché.
Il Cristianesimo, come riconosciuto in modo sottile anche da uno storico non cristiano quale Marc Bloch, ha una dimensione prettamente storica (4). Bloch ne evidenzia soprattutto la storicità (ben distinta dallo storicismo idealista) a livello metafisico: Cristo, il Verbo di Dio incarnato, è un personaggio storico; l’Incarnazione è un fatto, avviene nella storia e sconvolge in modo irreversibile la storia. Di questo avevano già scritto tutti i Padri, e qualsiasi studente liceale ne ha una conoscenza minima attraverso i principi del De Civitate Dei di sant’Agostino. Tuttavia, come ben sappiamo, l’aspetto metafisico è immediatamente riflesso (anzi, non essendoci rapporto di subordinazione, potremmo dire che il medesimo contenuto si irradia parallelamente in due canali) nella liturgia. Il temporale, riprendendo ancora una volta le parole del Gromier, è «fondato sui fatti», e così parimenti lo è il santorale antico: il primo rammenta gli eventi della Storia della Salvezza, iniziando dalla Natività del Signore e giungendo fino alla Pentecoste e all’istituzione della Chiesa; il secondo, da una parte completa il temporale con i misteri della vita della Deipara, e dall’altra commemora i Santi, personaggi storici che hanno con la propria vita esemplare testimoniato la possibilità di theosis offerta dalla Divina Redenzione, e li commemora nel giorno del proprio dies natalis al cielo (o al massimo della traslazione o dell’invenzione delle proprie reliquie), cioè il giorno di un fatto storico. A sostegno di ciò, troviamo, tanto nel Calendario Romano quanto nei Calendari di altri riti anche fatti storici di altro genere commemorati come feste liturgiche: la dedicazione di chiese, l’apparizione di san Michele sul Gargano, il martirio di san Giovanni a Porta Latina, la conversione di san Paolo, le apparizioni della Madre di Dio, la vittoria di Lepanto, le feste delle Cattedre; il miracolo di san Michele a Colosi, la caduta di Costantinopoli, il miracolo di san Teodoro, la traslazione o i miracoli compiuti da icone; il miracolo di san Simeone il Conciatore, e molti altri (5).
Il Santorale inizia tuttavia pian piano a essere ingombrato da queste «feste di idea», che alterano la struttura tradizionale del Calendario. Alcune sono accettabili: feste che possono trovare una loro lettura storica, e che vengono presentate come idee solo per comodità: essempligrazia, la Divina Maternità di Maria ricorda l’evento del Concilio di Efeso; la festa della Santissima Trinità è il completamento dell’Ottava della festa storica della Pentecoste (si confronti anche il modo con cui queste due feste sono celebrate presso i Greci, e come per mezzo dello Spirito Santo si verifichi operativamente l’azione diretta della Trinità nel mondo secondo la patristica antica) … La maggior parte tuttavia no: già nel basso medioevo nascono, e proliferano nei secoli successivi; corrispondono a titoli o pratiche devozionali (Sacra Famiglia, i «titoli» della Madonna, Cristo Re, i Nomi del Signore e di sua Madre …), anche a sacramenti, che però presi nella loro astratta oggettività perdono del lor proprio significato (il Corpus Domini, il Preziosissimo Sangue …), o a concetti che sovente nell’interpretazione popolare rischiano di sfiorare l’eresia (i Cuori di Cristo e di Maria). Paradossalmente, queste feste hanno ricevuto nella storia degli ultimi secoli attenzione maggiore (in modo un po’ populista, poiché care al devozionismo popolare): risulta estremamente ridicolo vedere elevate a doppie di I classe o addirittura insignite d’Ottava e celebrate con pompa magna feste come il Preziosissimo Sangue o il Sacro Cuore, e viceversa snobbati e dimenticati in una II classe (6) e quasi mai solennemente celebrati eventi fondamentali come la Trasfigurazione o la Natività della Madonna.
Purtroppo, molto spesso, il movimento tradizionalista non si rende conto della sovversione profonda che questo tipo di feste ha apportato al sistema del Calendario, e anzi spinge, sull’onda devozionista, per l’introduzione di nuove feste, di nuovi titoli della Madonna, alcuni dei quali di dubbia ortodossia (come il recentemente istituto, come festa liturgica nel rito riformato, «Madre della Chiesa», oppure «Corredentrice», o «Mediatrice di tutte le grazie»). Non sono mancati nemmeno gli sponsores dell’introduzione di una «festa di Dio Padre», sulla scorta di presunte rivelazioni di una dubbia mistica del secolo scorso, i quali propugnavano l’importanza di questa festa sostenendo il Padre essere l’unica persona della Santissima Trinità priva di festa liturgica (tra l’altro, credendo la Pentecoste una «festa dello Spirito», e non un evento quale è! Verrebbe da chiedersi, poi, quale tra la miriade di eventi che Lo riguardano sia la «festa del Figlio») …
La verità è che non esistono feste in onore delle persone della Santissima Trinità in quanto tali poiché tutta la liturgia è una lode incessante al Dio Trino e Uno, e ogni atto liturgico si compie «in nomine Sanctae, Consubstantialis et Indivisae Trinitatis, Patris et Filii et Spiritus Sancti». Così come allo stesso modo la Parola di Dio è onorata quotidianamente in tutta la Liturgia: è cantata nell’Ufficio (salmi e cantici) e nella Messa, e la sua parte più importante, ovvero il Vangelo, è riverita con lumi e incenso, e in molti riti orientali pure «intronizzata» sull’altare (anche nel rito romano classico, in realtà, dacché il diacono depone il libro al centro della sacra mensa prima di pregare «Munda cor meum …»).
Purtroppo, se anche questi concetti paiono obliati dalle menti dei cattolici, financo i più «esperti» di liturgia, tristi appaiono le sorti della Chiesa Romana …
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(1) Nella vulgata comune, il protestantesimo è rappresentato come la forma di cristianesimo che ha mantenuto maggior rispetto per il testo sacro, dandogli maggior importanza nei suoi sacri servizi, nella formazione religiosa, ecc. In realtà questa visione è prettamente parziale e ideologica, in quanto il protestantesimo presenta una forte alterazione del testo sacro, che arriva addirittura a sminuirlo. Tale alterazione è insita nella distorsione del rapporto tra pleroma (la pienezza [della Chiesa]) e atomon (l’individuo) alla base dell’eresia protestante: già nel luteranesimo, e maggiormente nella seconda riforma, ogni singolo atomon diventa pleroma a sé stante, non necessariamente unito e concorde con i suoi correligionari: ogni individuo è chiesa a sé, questa è la conseguenza più pesante del forte e inquieto personalismo individualista della dottrina luterana, di cui i cinque sola sono solo un’espressione esemplificativa. Nella Sacra Scrittura, questo si verifica nella misura in cui oltre alla libera e doverosa lettura del testo (cosa comune alla Chiesa antica, mai venuta meno nell’Ortodossia, ed eclissatasi nella pratica cattolica controriformista solo in opposizione al protestantesimo), si accompagna la libera interpretazione individuale dello stesso, al massimo guidata da un pastore che in questo modo assume un grande potere (clericalista) d’influenza sul popolo: non c’è nessun legame nell’interpretazione individuale con la Tradizione e i Padri della Chiesa, che nella visione ortodossa costituiscono il necessario complemento al testo sacro, di cui ricavano ed esplicitano il contenuto dommatico. Lutero stesso, con un atto di vero spregio al testo sacro, fu il primo ad applicare questa libertà interpretativa nel rigettare in primis l’Epistola di Giacomo, da lui considerata – senza alcun fondamento nemmeno filologico, per altro – una «lettera di paglia» perché palesemente negante la dottrina della sola fides, nonché altri testi canonici dell’Antico Testamento. E’ rispettoso forse del testo sacro stralciarne arbitrariamente le parti non conformi alla nostra visione personale, cioè alla nostra “chiesa” individuale? No, è irrispettoso e chiaramente eterodosso!
L’importanza nei sacri servizi è data molto semplicemente dal fatto che, eliminata o estremamente ridotta la parte sacrificale della liturgia, è rimasta in posizione preminente (ma quantitativamente non superiore rispetto a quanto praticata nel Cristianesimo tradizionale) la “parte istruttiva”, ovvero la lettura biblica.
(2) Prima del 1955, la domenica impedita da una festa era commemorata sia alla Messa che all’Ufficio, e il suo Vangelo era letto come IX lezione del Mattutino e come Ultimo Vangelo della Messa. Con la riforma di Pio XII, non solo spariscono Ultimo Vangelo e IX lezione proprie, ma pure la commemorazione in caso di coincidenza con una festa del Signore (giusto per citare un caso lampante, Cristo Re; ma anche Corpus Domini e Sacro Cuore quando celebrati “esternamente” nella domenica più vicina …).
(3) L. GROMIER, La simplification des rubriques du missel et du bréviaire, in «Revue de Droit Canonique», V (1955), p. 176.
(4) Cfr. M. BLOCH, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Paris, Colin, 1993, pp. 26-27.
(5) Ironia della sorte, nelle riforme degli anni ’60 dal Calendario Romano sono state espunte due delle feste citate (Apparizione di san Michele e Martirio di san Giovanni); già dal Settecento, sulla scorta della devozione diffusa, la festa della «Madonna della Vittoria», istituita da Pio V per commemorare la vittoria a Lepanto, fu mutata in «Madonna del Rosario», con un conseguente mutamento in senso astratto dei suoi testi liturgici.
Le feste delle Cattedre (nel Calendario Romano, 18 gennaio quella Romana e 22 febbraio quella Antiochena; altri calendari locali avevano le proprie, per esempio quella Veneziana il 5 settembre) potrebbero parere «feste di idea», ma in realtà commemorano eventi storici, cioè l’istituzione di sedi episcopali di notevole importanza.
(6) Le feste più antiche risentono della graduazione antica, che riservava il rito doppio, e ancor più la I e la II classe, solo alle feste maggiori; quando poi pian piano, in modo anomalo, il doppio inizia a diventare il grado comune delle feste dei santi, vengono elevate sistematicamente tutte le feste care al popolo, ma vengono scordate feste che rimanevano doppie di II classe (o anche solo doppie maggiori, come l’Esaltazione della S. Croce) per antica tradizione, creando così dei visibili scompensi.
Cfr. traditio marciana