Alfredo Ildefonso Schuster, Settuagesima

DOMENICA IN SETTUAGESIMA
Stazione a San Lorenzo fuori le mura

 

L’uso orientale considerava siccome festivi, ed esenti quindi dal digiuno quaresimale, il sabato e la domenica; onde a compiere la sacra quarantena, i greci anticiparono l’astinenza d’alcune settimane, e sin dall’odierna domenica cominciarono il ciclo penitenziale coll’interdirsi l’uso delle carni. Nella seguente settimana essi rinunzieranno anche ai latticini, e finalmente nel lunedì di quinquagesima comincieranuo il rigoroso digiuno in preparazione alla Pasqua.

Presso i latini la pratica fu fluttuante. Incominciando il ciclo quaresimale colla prima domenica di quaresima, si hanno in realtà, come ben osserva san Gregorio Magno, quaranta giorni di preparazione, ma di questi, solo trentasei consacrati al digiuno. A supplire i quattro giorni mancanti, le persone religiose, gli ecclesiastici, assai per tempo cominciarono l’astinenza dalle carni il lunedì di quinquagesima (in Carnis privio o in Carne levario = Carnevale); bisogna però attendere sino al tempo di san Gregorio Magno per ritrovare nell’antifonario la consacrazione liturgica del caput ieiunii il mercoledì di quinquagesima.

Ma la pietà dei devoti non si appagò di questi soli quattro giorni suppletori. I Greci cominciavano prima, onde, convivendo con essi durante il periodo bizantino a Roma, bisognava che i nostri non si mostrassero da meno di loro. San Gregorio quindi istituì, o dette almeno forma definitiva a un ciclo di tre settimane preparatorie alla quaresima, con tre solenni stazioni alle basiliche patriarcali di San Lorenzo, di San Paolo e di San Pietro, quasi a porre il digiuno pasquale sotto gli auspici dei tre grandi Patroni della Città Eterna.

Il ciclo stazionale incomincia oggi, ma con ordine inverso dalla basilica di San Lorenzo, la quale occupa solo il quarto luogo tra le basiliche papali. La cagione si è che non conveniva di spostare la stazione inaugurale di quaresima dal Laterano, dove effettivamente sin dal iv secolo i Pontefici furono soliti d’immolare il sacrificium quadragesimalis initii, come s’esprime il Sacramentario.

Sembra che le tre messe di settuagesima, sessagesima e quinquagesima datino dal periodo Gregoriano, giacchè esse riflettono perfettamente il terrore e la mestizia che aveva invasi gli animi dei Romani, in quelli anni in cui sembrava che la peste, la guerra e i terremoti volessero radere al suolo l’antica regina del mondo.

________

 

L’introito è tolto dal salmo 17: «Mi oppressero le ambascie di morte e mi avvolsero le reti dello Sceol; io nell’angustia ho chiamato Iahvè, ed egli ascoltò dal suo santo tempio il mio grido».

Da questa domenica sino al giovedì santo nelle messe de tempore si tace l’Inno Angelico, che però in origine non si cantava che a Natale e a Pasqua. In seguito, lo si estese anche a tutte le domeniche fuori di quaresima e alle feste dei Martiri, ma sempre in via d’eccezionale privilegio; cosicchè la colletta che nei giorni di digiuno e di penitenza si ricongiunge direttamente all’invocazione litanica, rappresenta la forma genuina, normale ed ordinaria della litania qual era in uso nell’antica liturgia della messa e dell’ufficio divino.

La colletta tradisce l’incubo di profonda pena che riempiva l’animo di san Gregorio alla desolazione della cosa pubblica di Roma e d’Italia durante il suo pontificato: «Accogli con clemenza, o Signore, le preci del tuo popolo, e mentre a cagione dei nostri peccati meritamente soccombiamo ai flagelli, a gloria del tuo nome ce ne liberi la tua misericordia».

La lezione è tratta dalla lettera ai Corinti (I, ix, 24-27, e x, l-5). Può essere solo effetto di fortuita coincidenza, ma può ancora essere effetto di scelta intenzionale: dopo il lungo cammino compiuto dai fedeli per arrivare a quella stazione suburbana del Verano – cagione per cui talvolta nel medio evo le venne sostituita qualche altra basilica nell’interno della città –, nulla di più appropriato, che il paragonare la vita cristiana ai ginnasti dello stadio, i quali, mediante la snellezza dei loro movimenti e l’agilità delle membra, meritavano la corona nelle gare atletiche.

In conclusione, l’Apostolo viene a dirci che non è il solo fatto d’appartenere a Cristo o a Mosè, quello che ci salva. Gl’Israeliti conseguirono pure tutti quei doni, pane miracoloso, acqua scaturita dalla rupe, passaggio incolume nel Mar Rosso ecc., i quali simboleggiavano i Sacramenti del Patto Nuovo; eppure, di così sterminata schiera, due soli entrarono nella terra promessa. Non è perciò la casta a cui si appartiene quella che ci assicura un posto privilegiato innanzi a Dio, ma sono le buone opere, la lotta che si sostiene per compierle, la fermezza e la costanza nel bene.

Il graduale deriva dal salmo 9: «Ed è Iahvè di rifugio all’oppresso, scampo nell’angustia; e in te fidano quelli che ti conoscono, chè, o Signore, tu non abbandoni chi ti ricerca. Infatti, il povero non andrà sempre dimenticato, la speranza dei tapini non perirà in eterno. Tu sorgi, o Iahvè, non prevalga l’uomo».

Invece del verso alleluiatico, che forse originariamente era una semplice acclamazione dopo l’Evangelo, distinta quindi dalla salmodia o che seguiva la seconda lettura del Nuovo Testamento, oggi si ha il psalmus tractus, che da principio, prima cioè che san Gregorio estendesse l’uso dell’Alleluia a tutte le domeniche fuori di quaresima, faceva parte della salmodia d’ogni sinassi festiva. Salmo 129: «Dal profondo ti chiamo, o Iahvè, odi tu la mia voce. Le tue orecchie siano attente alla prece del tuo servo. Se i delitti tu riguardi, o Iahvè, chi mai resiste? Però teco è la misericordia, e a ragione della tua legge io t’ho atteso, o Signore».

La parabola evangelica (Matth., xx, 1-16) del vignaiuolo e degli operai, allude alla vocazione dei gentili alla fede. Essi sono stati chiamati all’ora undecima della storia dell’umanità, ma, per inscrutabile giudizio della divina misericordia, hanno ricevuto la mercede piena ed abbondante, nè più, nè meno che i Patriarchi e i Profeti dell’ora terza, sesta e nona. San Gregorio, commentando oggi al popolo, adunato in San Lorenzo questa parabola, toccò il profondo mistero della gratuita distribuzione della grazia, la quale ha solo in Dio la sua ragione sufficiente. Al qual proposito, narrò di tre zie sue, vergini consacrate e di ferventi propositi, delle quali due perseverarono, cioè Tarsilla ed Emiliana che sono venerate tra le Sante; la terza invece, Gordiana, violò il suo voto e finì miseramente.

L’offertorio deriva dal salmo 91: «Bello è dar lode a Iahvè, ed inneggiare, o Altissimo, al tuo nome».

La colletta sulle oblate è identica a quella dell’ottava di natale, che è di carattere generico.

L’antifona durante la distribuzione dei Sacri Doni, deriva dal salmo 30: «Fa risplendere il tuo volto sul tuo servo; soccorrimi colla tua grazia. Deh! Signore, che io non resti confuso poscia che t’ho invocato».

La preghiera eucaristica è la seguente: «I tuoi doni, o Signore, confermiuo nella carità i tuoi devoti; onde partecipandone, ognor più ne siano avidi, e l’avidità loro venga saziata con un possesso imperituro».

L’incertezza dell’eterna salute! Cum metu et tremore vestram salutem operamini, come dice san Paolo (Philipp., ii, 12) ecco il frutto dell’odierna meditazione sull’Epistola di san Paolo e sulla parabola del vignaiuolo! Quanti prodigi da Dio operati durante i quarant’anni che Israel trascorse nel deserto! Cibo celeste, acqua miracolosa, nube e colonna di fuoco, il Mar Rosso e il Giordano che si aprono al suo passaggio! Eppure di tante miriadi di beneficati, un gran numero prevaricò, ed appena due conseguirono la mèta. Così, non basta di esser battezzati, d’essere stati chiamati da Dio ad uno stato santo, alla dignità sacerdotale, d’essere divenuto l’oggetto delle sue speciali compiacenze mediante il facile accesso ai santi Sacramenti, ad ascoltare la divina parola. Occorre sforzarsi, operamini; bisogna battere la via angusta che conduce alla vita; bisogna imitare i pochi, cioè i Santi, per salvarsi coi pochi. Queste grandi massime evangeliche, quanta maggior forza acquistano quando vengono meditate, come nell’odierna stazione, presso le tombe degli antichi Martiri che, pur di giungere al Cielo, hanno sacrificato ricchezze, giovinezza e vita!

 

Cfr. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, – III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (la Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 29-32.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Aggiungi ai segnalibri il permalink.

I commenti sono stati chiusi.